Il volume è in promozione per tutto il mese di aprile € 20,00 €15,00 + spese di spedizione gratis Incipit del romanzo di Michele Columbu, Senza un perché |
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![]() Molti affermavano che il mondo finiva sull’orlo del burrone, a non più di tre ore dal paese. Alcuni altri, un’esigua minoranza, avanzavano l’ipotesi che finisse più lontano. Restava però il fatto che i sentieri a sud-ovest non portavano da nessuna parte. Con la stessa logica avrebbero potuto dire che il mondo cominciava lì e cammin facendo si sviluppava verso nord-est. Senonché, tutta la storia del villaggio induceva al pessimismo, e la maggior parte della gente era di intelletto così pigro da rifiutare persino l’idea di trovarsi all’inizio di qualcosa che poteva crescere, non si sa mai, e produrre sconosciuti rivolgimenti. Meglio in coda a tutti, quieti e tranquilli, in una posizione stabile, quantomeno, e al riparo da sorprese. Ma ai tempi d’oggi nessun angolo remoto della terra può sfuggire alla forza del progresso. Il governo infatti, volendo aiutare certi contadini che si ostinavano a seminare cereali in una pianura pietrosa, deliberò di costruire quattordici chilometri di strada, dal paese al burrone. I contadini, tuttavia, erano troppo furbi per credere a una notizia così strana. Perciò fingevano di rallegrarsi, come per stare a uno scherzo; si scambiavano sorrisi maliziosi e a modo loro facevano dell’ironia. Ecco però, in autunno, proprio quando si era cessato di parlarne, vennero dei geometri statali e di buona lena cominciarono a misurare seriamente la pianura (altro che ironia!) e a scrivere sulle pietre. Spiegarono che avrebbero costruito una strada di penetrazione agraria per favorire una moderna coltivazione della campagna e il suo ripopolamento. I contadini furono profondamente scossi dall’idea di modernità e, come investiti da una febbre di avventura, con allegra risolutezza vendettero i buoi da aratro. Ventisei di essi furono assunti nell’impresa; uno si improvvisò barbiere e altri due, padre e figlio, aprirono una macelleria. Secoli di buio e di proverbi immobili furono spazzati via in pochi giorni. L’attività dell’impresa subì qualche interruzione per il maltempo. Per il resto procedeva secondo le regole, quando un lunedì i contadini lasciarono cadere i badili, le zappe, i picconi e abbandonarono il lavoro. Ciò succedeva perché Andrea Galòn, detto Metà-di-nulla per la sua mitezza remissiva, aveva sputato in faccia a un caposquadra e la polizia lo aveva arrestato. Seguirono giornate di manifestazioni in piazza, quasi epiche, alle quali partecipò l’intera popolazione con uno strano senso di fierezza e di appassionamento, come se lottassero per dilatare i confini del mondo e per la redenzione dell’umanità. “Noi siamo noi”, gridò una sera il barbiere ottenendo un vasto consenso. E’ vero, noi siamo noi! ripetevano sorpresi e soddisfatti come bambini che hanno inventato un nuovo gioco. Un fervido uomo politico, comparso all’improvviso come un uccello raro e di passaggio, quella sera stessa commentò in toni travolgenti che l’espressione popolare “noi siamo noi” suggellava una matura presa di coscienza: la coscienza dell’identità. E d’altra parte, concludeva, l’onesto sputo di un operaio segna forse la fine di una lunga era di silenzio e ne apre un’altra di libertà e di crescita civile. Andrea Galòn fu rilasciato dopo tre giorni e tornò nel cuore della notte, quando una folla insonne di paesani indugiava ancora nella piazzetta, attorno a una pattuglia della polizia che radiotelefonava ai superiori preoccupati. Pronto pronto pronto. Tutto veniva ripetuto tre volte, e questo era nuovo e divertente. Parla Veloce 18, dimmi se mi senti (tre volte), passo. Una cassetta grigia, munita di tre manopole, gracchiava la risposta: Pronto pronto pronto, qui Garanzia 31, ti sento benissimo. Passo. Il graduato rispondeva: Siamo circondati da migliaia di donne minacciose e ostili. La situazione è grave. Passo. Balenavano capricciosamente le fiamme di due fuochi illuminando barbe di vecchi intenti e occhi stupiti di donne. Sembrava di assistere alle ultime ore di un valoroso avamposto di guerra. La cassetta gracchiò faticosamente: Resistete. Mandiamo squadra di soccorso. Chiudo. A quel punto entrò nella piazza Andrea Galòn che fu tirato giù dalla carretta e issato sulle spalle di uomini vigorosi fra clamori di entusiasmo. Anche i poliziotti, stranamente rinfrancati, gli strinsero la mano, bravo, bravo. Si mescolarono alla folla e parteciparono a una storica bevuta fino a dimenticare la severità emblematica dell’uniforme. Si videro infatti dei bambini con berretti militari inseguirsi intorno ai fuochi e gridarsi pronto pronto pronto, siamo circondati, dimmi se mi senti, e risate e piccole baruffe in cui il più arrogante insegnava: tu devi dire se mi senti, io rispondo pronto, poi tu dici passo, capito? Solo Andrea, in mezzo a tanta festa, domandava con aria smarrita: cos’è successo? Il giorno dopo ripresero il lavoro. Ma quando si diffuse la voce che lo sputo, sebbene emesso con un “puh” di estremo disprezzo, non aveva raggiunto la faccia del caposquadra, ci fu un po’ di delusione. Ehi, tu, non sai nemmeno sputare? Non importa, anche Andrea Galòn era un uomo, e da allora, per una sorta di promozione sociale, fu chiamato Nulla. Arrivò una ruspa nuova con un manovratore taciturno che portava occhiali neri, da sole, anche se pioveva. Faceva quasi paura, ma il lavoro procedeva più speditamente. Con una macchina come quella, si vantava qualcuno, mi metto gli occhiali neri e in un solo giorno ti rivolto la terra di un campo intero. Nel linguaggio degli uomini più immaginosi trionfò allora il termine meccanizzazione; e l’impeto di imprecisate speranze cresceva. Verso il tramonto era esaltante assistere al rientro del baldanzoso drappello dei lavoratori che riempivano di allegria le strade del paese, i bar e i negozi. Anche nella macelleria, padre e figlio, un po’ ingrassati, sorridevano a tutti e sembravano contenti di scoiare, di segare ossa e corna di bue, di sminuzzare visceri e carne, non tanto per il guadagno quanto per cancellare dal villaggio l’ingrata memoria del passato. Poi la strada si affacciò sul burrone, quasi all’improvviso, e i lavori si fermarono dove terminava il mondo. Ma l’ingegnere non volle registrare quel concetto e su un’asse orizzontale fece scolpire la semplice scritta FINE DELLA STRADA, con lettere maiuscole. Nient’altro. Era tornato l’autunno e sarebbe stato il tempo di seminare. Gli aratri e le zappe arrugginivano sotto la pioggia nei cortili aperti. Qualche anziano andava per legna con un asino; gli altri, a piccoli gruppi, si ritrovavano nei bar, parlavano e giocavano a carte. Ma senza allegria. All’approssimarsi dell’alba, a volte, nel buio e nel vento si udiva un muggito familiare assieme all’odore antico della stalla. Ma ormai ascoltavano soltanto voci di altri pianeti, rumori urbani, macchine e luci, felicità, abbondanza di ogni cosa. Prima che il villaggio uscisse dall’inverno, quasi tutti erano partiti nella direzione opposta alla nuova strada. La smania dell’emigrazione si diffuse come un’epidemia e travolse altri contadini che lavoravano a nord-est nelle terre buone, alcuni artigiani disoccupati e certi studenti, ormai diciottenni e disamorati dallo studio. Fra circa ottanta emigranti si contavano anche undici ragazze. In segno di lutto e di stizza undici focolari per molti mesi restarono spenti. … ©riproduzione
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