L'Elenco delle recensioni è disposto in ordine alfabetico per autore


AA.VV., Launeddas
L’Ortobene - 8 febbraio 1998
UN LIBRO DI GRANDE VALENZA di Dolores Turchi
L’Unione Sarda
Antropologia e magia in un volume della AM&D,  e nelle opere dello studioso danese Andrea Bentzon
di Bachisio Bandinu

AA.VV., Storia del movimento sindacale nella Sardegna meridionale
La Nuova Sardegna - 30 dicembre 2002 
IN PRINCIPIO FURONO LE LEGHE... di Giuseppe Pulina

Alessandra Cioppi, Battaglie e protagonisti nella Sardegna medioevale
Dal Mediterraneo agli oceani - Notiziario del CNR/ISEM n. 31 - aprile 2009
SENZA TITOLO di Giuseppe Bellini

Luisa Coda, Ceti intellettuali e problemi economici nell'Italia risorgimentale
La Nuova Sardegna - 18 novembre 2002
INTELLETTUALI ED ECONOMIA PRIMA DELL’UNIFICAZIONE di Eugenia Tognotti

Martino Contu, I martiri sardi delle Fosse Ardeatine. I militari
Nuovo Cammino - n. 2, 15 gennaio 2000
I MARTIRI SARDI DELLE FOSSE ARDEATINE. UN LIBRO-TESTIMONIANZA DI UN GIOVANE STORICO DI VILLACIDRO
di Italo Cuccu
L’Unione Sarda - 18 febbraio 2000
IN UN LIBRO EDITO DALLA AM&D, MARTINO CONTU RICOSTRUISCE LA STORIA DEI QUATTRO MILITARI FUCILATI DALLE SS... di Carlo Figari

Enrica Delitala, Novelline popolari sarde dell'Ottocento
Il Messaggero sardo - 7 gennaio 2000
LE FOLE: COMUNICAZIONE ORALE E RACCONTO FANTASTICO... di Eugenia Da Bove
SENZA TITOLO di Ignazio Lecca

Carlo Figari, Leopoli, il mistero dell’armata fantasma

Il Risveglio - 24 ottobre 1996
Recensione di Domenica Calza


Alessandra Guigoni, Alla scoperta dell’America in Sardegna

Salone del Gusto di Torino - 21-25 ottobre 2010
COMUNICATO STAMPA

L’Unione sarda - 20 gennaio 2011
L’AMERICA IN SARDEGNA: PATATE, POMODORI, FICHI D’INDIA di Caterina Pinna


Giovanni Lilliu, L'Archeologo e i falsi bronzetti

La Nuova Sardegna - 3 maggio 1999
I FALSI BRONZETTI E I FALSARI DI SEMPRE di Leandro Muoni


Antonangelo Liori, Racconti della montagna

La Nuova città - maggio-giugno 1998
INQUIETUDINI E RITMI SEGRETI di Gianni Pititu


Marinella Lörinczi, Il libro del Fenicottero. Immagini della "Gente Rossa" nelle lingue e nelle arti

L’Unione Sarda - 21 giugno 2003 
Scaffale sardo: Rubrica di Gianni Filippini

Luciano Marrocu, Procurad' 'e moderare. Racconto popolare della rivoluzione sarda
La Nuova Sardegna - 7 maggio 1996
MITO E STORIA.  RIVOLUZIONE IN ABITI SARDI di R.C.

Franco Masala, Architetture di Carta. Progetti per Cagliari (1800-1945)

La Nuova Sardegna - 10 febbraio 2003 
CAGLIARI, CITTÀ DEGLI OPPOSTI. UNO SVILUPPO NEL SEGNO DEL BINOMIO ACQUA-TERRA di Sandro Roggio

Bartolomeo Muggianu, Meana Sardo ed la grande trasformazione del Novecento
La Nuova Sardegna - 7 febbraio 2002 
SOTTO IL DOMINIO DEI PRINZIPALES... di Gian Giacomo Ortu

Giancarlo Nonnoi, Saggi galileiani. Atomi, immagini e ideologia
La Nuova Sardegna - 30 marzo 2001
GALILEO E IL SUO BEST-SELLER. E L’INQUISIZIONE FAVORÌ LA DIFFUSIONE DEL «DIALOGO» di Roberto Paracchini

Gianni Pititu, Sequestri. Il cielo nascosto

Il Corriere di Roma - 30 novembre 1996
SEQUESTRI: QUANDO LA SOCIOLOGIA E IL DIRITTO DIVENTANO ROMANZO di Mario Corda


Bachisio Porru, Diario di un sindaco
La NuovaSardegna - 30 dicembre 1999
SINDACI NUOVI “BALENTES” di Giangiacomo Ortu

Il Provinciale oggi - 1 gennaio 2000
LA CRISI DEI PICCOLI COMUNI DELL’INTERNO, DELLA VERA SARDEGNA,  IN UN LIBRO DI BACHISIO PORRU


Giuliano Procacci, La Memoria controversa
Il Riformista - 29 maggio 2003
DATEMI UN LIBRO DI TESTO E VI FARÒ UNA NAZIONE
Corriere della sera - 19 giugno 2003
L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEI MANUALI di E.M.
L'Unità - 23 giugno 2003
LA STORIA SCRITTA. E RISCRITTA di Adriano Guerra
Repubblica - 11 dicembre 2003
LE MANI SULLA STORIAdi Simonetta Fiori

Antonio Romagnino, Torri e mare
La Nuova - 9 gennaio 1996
UN LIBERAL, UN’ISOLA E LA SUA CAPITALE INVISIBILE di Leandro Muoni

Antonio Sassu, La dinamica economica di un sapere locale. La coltelleria di Sardegna
La Nuova Sardegna - 6 aprile 2002 
PER LA NOSTRA CRESCITA  I COLTELLI TRADIZIONALI MEGLIO DEL PETROLIO di Mario De Murtas
L’Unione Sarda - 5 maggio 2002 
COLTELLI DOC PER IL MERCATO ESTERO... di R.Ec.
Il Messaggero sardo - ottobre 2002 
LE POTENZIALI RISORSE DI UN’ANTICA ATTIVITÀ di Eugenia Da Bove

Pinuccia F. Simbula, Corsari e pirati nei mari di Sardegna

La Nuova Sardegna - 4 giugno 1996 
CORSARI DI SARDEGNA. L’ASSEDIO NAVALE ARAGONESE CONTRO ARBOREA di Luciano Marrocu


Salvatore Tola, La poesia dei poveri. La letteratura in lingua sarda
La Nuova Sardegna - 6 gennaio 1998
NELLA TERRA DELLE MUSE UN INVENTARIO PREZIOSO DI MEMORIA SARDA di Manlio Brigaglia

S’Ischiglia - febbraio 1998
LA POESIA DEI POVERI DI SALVATORE TOLA

Il Provinciale oggi - 1 giugno 1998 
Recensione di Giovanni Giacu
Il Messaggero Sardo - novembre 1998
“LA POESIA DEI POVERI”  PRESENTATO A TORINO AL SALONE DEL LIBRO di Paolo Pulina

Siro Vannelli, Erbe selvatiche e commestibili della Sardegna
L’Unione Sarda - 3 aprile 1999
INDIVIA E INVIDIA, PAROLE SIMILI DAL SIGNIFICATO OPPOSTO di Antonio Romagnino

Nuovi Orientamenti - 18 aprile 1999 
ERBE SELVATICHE E COMMESTIBILI DELLA SARDEGNA di Paolo Mereu

Erboristeria domani - maggio 1999
Sardegna - Aglio - Fiori di Bach

 



Alessandra Guigoni, Alla scoperta dell'America in Sardegna.
Vegetali americani nell'alimentazione sarda

L'America in sardegna


torna su


Recensione al volume:
Alessandra Guigoni, Alla scoperta dell'America in Sardegna.
Vegetali americani nell'alimentazione sarda

L’Unione Sarda
20 gennaio 2011

L'America in sardegna


torna su



Recensione al volume:
Antonio Romagnino, Torri e mare

La Nuova
9 gennaio 1996

UN LIBERAL, UN’ISOLA E LA SUA CAPITALE INVISIBILE
La Cagliari di Romagnino

di Leandro Muoni

«E a dir Sardigna/le lingue lor non si sentono stanche». Così attesta Dante di Michele Zanche e Frate Gomita nel XXII dell’Inferno.Davvero non sapremmo catalogare spunti e pretesti di siffatta passione confabulatoria, ma una cosa è certa: quest’attaccamento morboso al tema sardo è riscontrabile ancor oggi nella quasi totalità degli scrittori isolani. Né da questo punto di vista fa eccezione il libro di cui ci occuperemo – che però poi si differenzia dal panorama locale per innumerevoli altri aspetti – recentemente affidato alle stampe da Antonio Romagnino: «Torri e Mare», per i tipi dell’editrice cagliaritana AM&D. Si tratta essenzialmente di un journal intime, fra il taccuino di lavoro e l’esercizio di stile, il memoriale e la prosa d’arte, il saggio e il frammento; tutto giocato sul sentimento dell’appartenenza, anzi sul sentimento critico dell’appartenenza, se così si può dire, e sulla linea d’identificazione dell’intellettuale sardo. Cioè sul contrasto dialettico fra il dentro e il fuori dell’isola, immaginosamente riassunti nell’insegnamento simbolico delle «torri» e del «mare» (simboli d’alto profilo letterario se mai ce ne furono).
Antonio Romagnino è un «grande vecchio» (siamo sicuri che l’espressione non gli dispiacerà) che guarda il mondo dal suo osservatorio con apertura infinita, e ne scrive secondo l’estro, la logica interiore, il senso dinamico delle cose. Da questo straordinario caleidoscopio della ragione risaltano i punti di partenza e di approdo, che sono poi circolarmente la stessa vicenda mentale della sua città, Cagliari: una capitale renitente (o recessiva), neghittosa e semiborghese. Una capitale che non c’è, ma che si lascia attorno la strana nostalgia della propria assenza: una calviniana «città invisibile», poniamo Aglaura, «città sbiadita, senza carattere, messa lì come viene», dove pure ti sorprende talvolta il «sospetto di qualcosa d’inconfondibile, di raro, magari di magnifico»: Aglaura, appunto. La passione di Romagnino per la sua malamata è così gelosa e totale da non ammettere condomini né compromessi di sorta: egli vuole essere l’unico e il solo a strapazzarla; non perdona a nessuno di proferire le amare verità che l’offendono, nemmeno se per l’avventura si chiami Joseph de Maistre o Carlo Emilio Gadda. Eppure Romagnino è ancora uno dei pochi capaci di evocare ad alta voce simili personaggi «scandalosi», a nominare le loro aspre parole, i vituperi, a trascriverli con meticoloso diletto di polemista (e al tempo stesso di fine sadomasochista).
Poiché in fin dei conti il suo punto di vista è un punto di vista eminentemente urbano, consapevolmente e orgogliosamente urbano, entro una cultura che fa di tutto, invece, per non dimenticare neanche per un momento le sue origini rurali e plebee: perfino carte false. E in effetti ciò che al nostro autore preme più dolorosamente è proprio la malasardità, questa puntura persistente e ingravescente che sta sempre al di qua di ogni distinzione fittizia fra cosmopolitismo di maniera e regionalismo chiuso. Una malasardità che ti nega perfino il gusto di godere della stessa «lingua degli affetti» ceduta senza troppi scrupoli in cambio della cosiddetta «legalizzazione de sa limba»: imbroglio orripilante al quale difficilmente abboccherebbero, putacaso, i «sardi di Lombardia»; e tutti quei sardi che hanno ancora coscienza di «non essere né migliori né peggiori degli altri italiani», come rammenta uno scomodo adagio di un sempre meno frequentato Emilio Lussu.
Ci trovi un’autentica miniera di punti dentro queste pagine, una miriade di fili disposti sopra questo telaio della memoria e della riflessione: dal grande «mito sardo» del D’Annunzio di fine-inizio secolo, il poeta-vate che più di ogni altro scrittore nazionale ha celebrato la terra e il cuore della Sardegna, ai miti del più recente dopoguerra, tutti rigorosamente sardeschi autonomistici e antropologici: vedi la rinomata (o famigerata) «Vendetta barbaricina come ordinamento giuridico» di Antonio Pigliaru: un libro «etnocentrista» che «mi fa orrore» (così, nelle testuali e quasi inverosimili parole di Antonio Romagnino).Non è questa evidentemente l’identità che piace al nostro autore, sardo di «torri e mare», sardo d’avvistamenti e planisferi; non è l’«identità selvaggia» quella che gli si addice, bensì l’identità della ragione e della coscienza illuminata e «liberal» (com'egli stesso sottolinea con un pizzico di civetteria politica): l’identità che è stata cara a Giaime Pintor e a una certa parte di Emilio Lussu.
Con questo libro Antonio Romagnino continua la sua confessione critica, il suo diario in pubblico, senza peli sulla lingua e magari con qualche sassolino in meno dalle scarpe: sua seconda tappa in sintonia di stile dopo la «Cronichetta del 1991». Confermandosi così una delle più vigili coscienze isolane e soprattutto uno dei più accattivanti e moderni scrittori della Sardegna, con quella sua acclimatazione insulare del frammento, che sembra veramente essere la sua «passion predominante» e, insieme, la sua più convincente cifra d’autore. 


torna su


Recensione al volume:
Luciano Marrocu, Procurad' 'e moderare. Racconto popolare della rivoluzione sarda

La Nuova Sardegna
7 maggio 1996

MITO E STORIA 
RIVOLUZIONE IN ABITI SARDI
Il saggio di Luciano Marrocu

R.C.

Le celebrazioni del duecentesimo anniversario di quello che si chiama il «triennio rivoluzionario» sardo si chiudono in questi giorni con un saldo fortemente attivo, tanti sono stati gli studi che, a partire da un indimenticato convegno di Quartu e Cagliari per ricordare la difesa della Sardegna dalla tentata invasione francese e poi l’insurrezione cagliaritana del 1794 sino al convegno sassarese di qualche giorno fa su «Patriottismo e costituzionalismo» in quegli anni 1794-96 (senza dimenticarne uno, molto interessante, a Bono nel 1989), ci hanno fornito molti nuovi documenti sul periodo e ricchi stimoli alla riflessione e anche ad una più attenta rivisitazione di quel periodo e dei suoi protagonisti, primo fra tutti Giommaria Angioy. Resta un problema, che è quello di «divulgare» queste acquisizioni di farle diventare, almeno in Sardegna, conoscenza (se non senso) comune. Qualcosa cerca di fare la Regione nel quadro delle celebrazioni della «Die de sa Sardigna»: ma è ancora troppo poco, a parte le polemiche su una qualche grossolanità della scelta di destinare a festa del popolo sardo quella particolare data.
Un simpatico passo in questa direzione ha fatto ora, proprio a proposito del triennio rivoluzionario, Luciano Marrocu con un libro il cui titolo “Procurad’ ‘e moderare”, riprende pari pari il primo verso del famoso “Innu de su patriottu sardu a sos feudattarios”, forse scritto proprio in quegli anni (a occhio e croce il 1794-94) dall’ozierese Francesco Ignazio Mannu. (Pregherei il proto, come si dice, di fare attenzione ai due apostrofi con cui è scritto il titolo: che corrispondono alla caduta della “e” finale di “procurade” e della “d” iniziale del “de” che regge l’infinito “moderare”. Precisazione necessaria, anche perché, a quanto pare, sui due apostrofi già sono iniziate alcune aspre dispute filologiche).
Che cosa vuole essere il libro (edito dalla cagliaritana AM&D) lo dice bene il sottotitolo: «Racconto popolare della Rivoluzione sarda 1793-1796».Dove il triennio è diventato un quadriennio che cominci addirittura verso la fine del 1792, quando fu annunciata, all’orizzonte della costa sulcitana, la flotta dell’ammiraglio Truguet mandata a conquistare la Sardegna per conto della Francia repubblicana. E finisce anche molto più in là del 1796 perché la parte finale del libro ha capitoli dedicati all’esilio parigino di Giommaria Angioy e dei «giacobini» suoi seguaci, all’autobiografia di Vincenzo Sulis, un altro dei controversi personaggi di quel tempo di torbidi, e alla «Storia in cui il Manno ricostruì, in feroce polemica con i rivoluzionari sardi, quello stesso periodo. La prima parte del libro è articolata in una ventina di brevi capitoli, in cui le aggrovigliate vicende di quegli anni tumultuosi sono ricostruite seguendo con attenzione il loro dipanarsi di mese in mese, di settimana in settimana o, nei momenti più caldi, di giorno in giorno.
Praticamente, Marrocu ripercorre la “Storia” del Manno (ma chiunque voglia raccontare quei fatti difficilmente potrebbe prescinderne) naturalmente, ricostruendo vicende individuali e di massa da una prospettiva totalmente antagonista rispetto a quella del barone algherese. Con una seconda preoccupazione, accanto a quella della corretta interpretazione storiografica: di mantenersi fedele a una scrittura agevole, chiara, intrigante. Marrocu scrive così anche quando scrive da storico «serio»: basta citare il suo bel libro sul “Salotto della signora Webb (Editori Riuniti, 1992), che è uno straordinario spaccato del socialismo inglese nella prima metà del Novecento. La facilità della scrittura diventa naturalmente un obbligo quando ci si propone di fare un lavoro di divulgazione. Marrocu vi riesce bene, senza rinunciare alla puntualità delle informazioni e delle considerazioni.
In apertura del libro ha premesso come fatto altre volte, una raffinata epigrafe, stavolta citando da Henry James: «Recuperare quanto è perduto è comunque assai simile a passare le linee del nemico per riprendersi i morti e dar loro sepoltura»..
Qui, come hanno fatto in questi ultimi anni tanti altri storici sardi (a cominciare dall’indimenticato Girolamo Sotgiu, che proprio agli inizi della «Sarda Rivoluzione» aveva dedicato alcuni suoi saggi, prima di condensare il senso dell’intero periodo nella “Storia della Sardegna sabauda”, edito da Laterza nel 1984), Marrocu non si è limitato, in verità, a passare le linee nemiche (l’interpretazione «moderata» di quegli eventi?) e a riprendersi i morti: non li ha seppelliti, anzi li ha fatti rivivere come sempre (cerca di fare) lo storico, ma in questo caso (cioè, in questo «racconto popolare») con un pizzico di verve e di umori di più.
In chiusura del volume, il testo dell’“Inno” antifeudale: un autentico piccolo capolavoro in 47 ottave, attraversato da una ironia forte e salda in cui la polemica di tipo giuridico si mescola con pezzi di satira alla Parini e improvvise accensioni emozionanti come i fiammeggianti appelli della «Marsellaise».


torna su


Recensione al volume:
Pinuccia F. Simbula, Corsari e pirati nei mari di Sardegna

La Nuova Sardegna
4 giugno 1996 

CORSARI DI SARDEGNA
L’ASSEDIO NAVALE ARAGONESE CONTRO ARBOREA
Le edizioni AM&D pubblicano una ricerca di Pinuccia Simbula

di Luciano Marrocu

Lungo i circa cent’anni che durò la conquista della Sardegna da parte dei catalano-aragonesi, la guerra di corsa costituisce un fenomeno di grande importanza. Fu infatti grazie ai corsari che agivano in nome della Corona d’Aragona che Cagliari e Alghero (rimaste per un certo periodo gli unici avamposti iberici nell’isola) poterono approvvigionarsi. E fu anche attraverso la guerra di corsa che le armi aragonesi riuscirono a mantenere una loro presenza nell’isola, quando nella seconda metà del XIV secolo, risorse ed entusiasmi per la conquista sarda sembrarono per lunghi periodi venir meno.
Su questa vicenda poco o nulla conosciuta, ci offre ora una bella e importante ricerca Pinuccia Simbula, una giovane storica attiva nell’ambito dell’istituto sui rapporti italo-iberici.
Il suo «Corsari e pirati nei mari di Sardegna» (pubblicato, oltre che dall’istituto menzionato, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e la cui realizzazione editoriale si deve alla cagliaritana AM&D) si muove su uno scenario molto ampio: non solo i mari sardi in senso stretto, ma anche acque e porti catalani, provenzali, siciliani. Quanto al periodo trattato, Simbula sonda con particolare attenzione gli ultimi quarant’anni del XIV secolo.
Anche se risulta particolarmente difficile leggere in una chiave unitaria questa fase così intricata del confronto tra il giudicato d’Arborea e la Corona di Aragona, sono gli anni comunque in cui la politica sarda di Pietro IV, segna il passo. Dopo che nel 1354 il re d’Aragona alla testa delle sue truppe, è entrato trionfalmente ad Alghero e dopo che l’anno successivo si è spinto sino a Cagliari, a partire dagli anni Sessanta le cose per i catalano-aragonesi hanno cominciato a mettersi male. L’apertura del fronte arborense – con l’offensiva prima di Mariano IV e, dopo la morte di quest’ultimo, di Ugone III, suo successore al trono giudicale – provoca alla Corona d’Aragona profonde difficoltà, che nascono tra l’altro dal fatto che essa è impegnata in uno scacchiere molto ampio.
È in questo contesto che Pinuccia Simbula colloca la sua analisi della «guerra in corsa» che si svolge nei mari di Sardegna e che secondo quanto scrive, divenne «lo strumento militare meno costoso per le deboli finanze della Corona». In mancanza di navi da guerra regolari (quelle che la Corona ha sono impegnate su altri fronti: nuove non si hanno i denari per armarne) ci si affida ai corsari per tentare una sorta di blocco navale sui porti del giudicato d’Arborea. In alcuni momenti poi, razziare e dirottare le navi di passaggio appare come l’unico modo per approvvigionare i territori regi. Lettere di corsa vengono così concesse a uomini come Arnau Aymar, maiorchino, che tra il 1383 e il 1385, al comando della galea «Sant Salvator» e «Santa Clara», pattuglia le acque sarde.
Quello stipulato tra il sovrano catalano-aragonese e Aymar è un vero e proprio contratto, attraverso cui il corsaro mette a disposizione la sua galea, lasciando a carico della Corona le spese di armamento dell’imbarcazione. Spetta ad Aymar, in cambio delle sue prestazioni, il dieci per cento del bottino, a cui si aggiunge un regolare stipendio mensile. A conti fatti – i bottini, spesso, sono tutt’altro che esaltanti – la guerra di corsa ha un costo per la Corona, ma si tratta di somme largamente inferiori a ciò che comporterebbe il mantenimento di una flotta regolare.
La campagna di Arnau Mayor, a cui Pinuccia Simbula dedica una ricostruzione tanto dettagliata quanto suggestiva, rivela aspetti importanti della guerra da corsa condotta nei mari sardi al servizio del re d’Aragona. Ci dice delle prede (sorprese il più delle volte all’uscita dei porti arborensi), dei bottini (grano, pelli e vino, molto spesso, ma anche panni e altri manufatti), della vendita delle merci razziate sulle piazze di Cagliari e di Alghero. Ci dice inoltre della occhiuta presenza a bordo del clavario, il funzionario regio incaricato di controllare costi e ricavi.Ci dice infine di come risulti difficile alla Corona disciplinare la foga e la rapacità di Aymar, che non si fa scrupolo, laddove gli si presenti l’occasione, di assaltare navigli di paesi neutrali o addirittura imbarcazioni fornite dai governatori catalani di regolari permessi di navigazione e di commercio.
Ci sono episodi insomma in cui Aymar si comporta come un vero e proprio pirata ed è in questi momenti che la politica «corsara» della Corona mostra un’insanabile contraddizione. Se da una parte uomini come Arnau Aymar erano indispensabili al re d’Aragona per condurre la guerra contro il giudicato d’Arborea, dall’altra la loro anarchica attività rappresentava una costante minaccia nei confronti dei traffici commerciali di quella parte del Mediterraneo.
«La soluzione del problema – scrive al riguardo Pinuccia Simbula – era alla radice: eliminare la guerra con l’Arborea». Cosa che in effetti avvenne nei decenni successivi, quando, con il compimento della conquista catalana dell’isola, «corsa e pirateria cristiana sarebbero rientrate, almeno nei mari sardi nei limiti della tollerabilità».


torna su


Recensione al volume:
Carlo Figari, Leopoli, il mistero dell'armata fantasma

Il Risveglio
24 ottobre 1996

di Domenica Calza

Tra i tanti “buchi neri” che a distanza di cinquant’anni ancora restano nella storia della Seconda guerra mondiale, ed in particolare in quella della campagna di Russia, ve n’è uno che ancora oggi sconcerta ed affascina per quell’aria di mistero quasi impenetrabile che lo circonda. È il caso dell’”Armata fantasma”, cioè di quei duemila soldati italiani che secondo alcune testimonianze, sarebbero stati uccisi dai nazisti a Leopoli nell’arco di tempo che va dall’estate 1943 ai primi mesi del 1944. L’ultimo, in ordine di tempo, ad occuparsi della vicenda è stato un giornalista dell’Unione Sarda, Carlo Figari, che raccogliendo testimonianze dirette e materiale documentaristico ha pubblicato recentemente un libro dal titolo “Leopoli – il mistero dell’armata fantasma”. Il “caso Leopoli” venne alla ribalta delle cronache, per la prima volta, quando un giovane giornalista italiano inviato del settimanale Epoca realizzò un reportage sulla presunta strage di soldati italiani dell’Armir. Il giovane inviato al suo primo scoop giornalistico era Jas Gawronski, oggi europarlamentare, editorialista ed affermato giornalista. Una commissione parlamentare di indagine si occupò del caso tra il 1987 e il 1988 e giunse alla conclusione che nessun eccidio di militari era stato commesso nella città dell’Ucraina occidentale indicata come luogo della strage, anzi la commissione sottolineò che tra l’estate 1943 e i primi mesi del 1944 a Leopoli non vi era più alcun soldato italiano e che se eccidio c’era stato esso non aveva riguardato i soldati dell’Armir. Il “caso Leopoli” sembrava dunque destinato ad essere archiviato insieme a tanti altri rimasti irrisolti, ma alcuni storici e scrittori, come Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern e Lucio Ceva, che pure avevano fatto parte della Commissione parlamentare, portarono avanti per conto loro una specie di contro-indagine e giunsero alla conclusione che, dalle testimonianze raccolte e dalla documentazione disponibile, non si poteva escludere che la strage di Leopoli non si fosse verificata. E la tesi di Revelli, Stern e Ceva fu avvalorata dalle affermazioni del Procuratore militare della Procura di Roma Giuseppe Scandurra che nel 1991, al ritorno da un sopralluogo a Leopoli, affermò: “Adesso abbiamo un’idea chiara delle dimensioni della tragedia di Leopoli. Gli italiani non furono che una frazione delle migliaia di persone qui fucilate ed uccise”, confermando così le notizie già pubblicate dalla Pravda sin dal 1944 che parlavano di un elevato numero di soldati dell’Armir massacrati dai nazisti in quella città e la testimonianza di una donna polacca che al processo di Norimberga aveva testimoniato parlando di un eccidio di italiani a Leopoli, poco dopo la caduta di Mussolini. Alla vicenda venne dedicato anche un libro di uno storico polacco, Jacek Wilczur, pubblicato e tradotto in italiano nel 1964, che passò quasi sotto silenzio. Solo nel 1987, quando l’agenzia di stampa sovietica rilanciò la questione con la rivelazione che un gruppo di studenti ucraini durante una ricerca sugli avvenimenti dell’ultima guerra nella loro città, avevano scoperto che i resti di duemila soldati italiani erano stati rinvenuti nella zona. Secondo la Tass la strage sarebbe avvenuta a causa del fatto che gli italiani si erano rifiutati di trasferirsi all’interno del territorio russo per continuare a combattere una guerra che era ormai perduta. La commissione ministeriale incaricata non ritenne decisive neanche le affermazioni della Tass e dopo qualche tempo il “caso Leopoli” tornò a cadere nell’oblio. In quel contesto di mistero e di reticenze un giornalista del quotidiano “L’Unione Sarda”, Carlo Figari, che casualmente aveva incontrato una donna polacca originaria proprio di Leopoli, raccolse una importante testimonianza diretta sull’eccidio dei duemila italiani. Questa ebrea polacca di nome Nina, che da anni vive tra noi nel ciriacese con la sua famiglia, raccontò a Figari la sua storia di bambina scampata miracolosamente allo sterminio dei suoi familiari, la fuga dalla sua terra natale e dalla persecuzione nazista, la sua emigrazione negli Stati Uniti, il matrimonio con un italiano e soprattutto, scavando nel dolore e nella memoria, narrò al giornalista di essere stata testimone oculare della tragedia di quei soldati italiani che, secondo lei, avevano cominciato ad essere uccisi dai nazisti sin dal luglio del 1943, subito dopo la caduta del regime fascista. Dal racconto vivo ed appassionato di Nina, la bambina ebrea scampata all’Olocausto, è nato un libro, “un romanzo-verità”, come lo definisce l’autore, in cui testimonianze e documentazione raccolta “vanno viste come un documento storico”.
“L’obiettivo è quello di dare al lettore gli strumenti per farsi un’idea complessiva e completa della vicenda tuttora aperta – dice Figari – e ciascuno, alla fine, trarrà la propria conclusione sulla base di personali interpretazioni e convincimenti”. Il libro del giornalista sardo, che verrà presentato venerdì 25 ottobre nel salone consigliare di Palazzo D’Oria, è una lettura avvincente e drammatica, ricca di spunti di riflessioni, di documentazione storica e giornalistica su una vicenda che lascia aperti molti dubbi e perplessità ed è sicuramente un utile strumento di conoscenza e di approfondimento su un tema sempre appassionante ed interessante com’è quello della ricerca della verità storica.


torna su


Recensione al volume:
Gianni Pititu, Sequestri. Il cielo nascosto

Il Corriere di Roma
30 novembre 1996

SEQUESTRI: QUANDO LA SOCIOLOGIA E IL DIRITTO DIVENTANO ROMANZO
Un libro di Gianni Pititu sui sequestri di persona in Sardegna

di Mario Corda

David Hume diceva che i libri infarciti di astruserie dovrebbero essere dati alle fiamme; e, anzi, c’è da pensare ch’egli tenesse sempre acceso il camino, perché anche allora, contrariamente a quanto potrebbe credersi, le astruserie dominavano il panorama culturale. Se però fosse vissuto ai nostri giorni, in cui l’astruseria è già un pregio, di fronte all’assoluto grigiore e all’inutilità di una miriade di libri, talvolta addirittura apocrifi e in ogni caso selezionati e reclamizzati dai mass media), avrebbe certamente suggerito qualcosa di meno nobile. L’abbandono nella discarica dei “rifiuti solidi urbani”, ad esempio. Credo che in tal modo la pensino anche due miei autorevoli amici, il poeta Alberto Virgilio e l’italianista Franco Vitelli, i quali opportunamente si domandano se valga più la pena di scrivere cose sensate, visto che il non senso sembra diventato il criterio guida dell’editoria, addirittura un canone di rigorosa applicazione. Eppure, in mezzo a tanta mediocrità, in mezzo a tanto bailamme, talvolta punta un libro di indubbio, indiscutibile valore che opportunamente ci ricorda due cose. La prima è che esistono ancora scrittori capaci di imporsi per la bontà intrinseca delle loro idee, delle qualità comunicative, delle doti artistiche. La seconda è che esistono ancora editori capaci di distinguere il vero dal falso e, perciò, di operare quella rigorosa selezione che è l’altimetro del livello culturale.
Uno di questi validi libri è sicuramente quello scritto di recente da Gianni Pititu, intitolato Sequestri – Il cielo nascosto, edito nella scorsa estate a Cagliari da AM&D e inserito nella prestigiosa collana i Griot, diretta da Stefano Pira. In esso l’Autore racconta, previa opportuna, ragionata meditazione, le drammatiche, tristissime vicende inerenti ai sequestri di persona avvenuti in Sardegna negli ultimi trent’anni.
Non si tratta di un semplice “saggio”, a cavallo tra il sociologico e il giuridico, anche se la profondità dell’indagine orientata in quelle direzioni, non certo ostentata, traspare in calibrata misura. Si tratta, al contrario, di un vero e proprio “romanzo” che ancora una volta ha come protagonista Nuoro, epicentro di quello specialistico banditismo che affina le tecniche di consumazione di un così orrendo crimine, ma che pur sempre è un microcosmo esprimente dal suo interno un’intelligenza e una forza morale che provvidenzialmente sopravanzano gli aspetti negativi. Una Nuoro tutto sommato contraddittoria, e nondimeno affascinante, il cui racconto, all’evidenza, non pare ancora concluso, neppure dopo Grazia Deledda, Salvatore Satta, Maria Giacobbe, Franco Floris.
È una storia triste, tristissima purtroppo, quella proposta da Gianni Pititu attraverso la sfilata di una moltitudine di personaggi: inermi vittime, parenti affranti dal dolore, ingordi aguzzini, manovali del crimine, intermediari più o meno abili, sciacalli, poliziotti, carabinieri, giudici. Storia triste e drammatica, che sottopone alle coscienze le nefandezze di un crimine contro l’umanità, nel quale si concentra ogni effetto belluino della cattiveria, perché per l’ignobile fine di un facile lucro annulla la libertà fisica e morale della vittima, strumentalizzata nel modo più atroce l’angoscia e il dolore dei parenti, condannati a una inumana sofferenza, spesso preludio all’agonia. Storia che coinvolge tutti, quantomeno perché la congiunzione del diffuso timore di cadere in quella rete e del conseguente potenziamento dell’apparato statuale repressivo non consente ad alcuno di estraniarsi da un contesto che opprime e nello stesso tempo imprime un indelebile marchio. Terra di banditi, è stato detto, non sempre a torto.
Gianni Pititu racconta e medita, e tuttavia non esprime un facile giudizio finale, il quale peraltro non potrebbe non essere di condanna. Ma da consumato scrittore con alle spalle un’esperienza giornalistica quarantennale induce il lettore ad esprimere, egli, quel severo giudizio e, quindi, a rinnegare quell’ancestrale, deteriore monocultura che, quando viene stretta d’assedio, tenta addirittura la via della colorazione ideologica; con l’intento, evidentemente, di instaurare quell’equivoco clima di non avversione che inevitabilmente finisce, poi, per tramutarsi in aperta omertà. Ma nel libro di Gianni Pititu la convinzione (purtroppo di molti) che il crimine sia possibile strumento più idoneo, il messaggio artistico. Il crimine è presentato come crimine, orrendo per giunta, sicché il lettore è portato a distaccarsi moralmente da esso, a respingere quel tentativo di giustificazione mascherato da falsa ideologia, a esprimere dall’interno quella adesione alla legalità che non è un semplice, puerile (e perciò effimero) “arrivano i nostri”, ma un necessario aspetto di quel consenso all’apparato ordinamentale che integra la vera essenza del diritto, e perciò della pacifica convivenza.
Ho avuto altre volte occasione di esprimere l’idea che l’adesione alle norme ordinamentali e, perciò, alla socialità può essere richiesta alla gente con l’unico strumento a ciò idoneo, il messaggio artistico, appunto. E la lettura del libro di Gianni Pititu mi conferma del convincimento che quell’idea merita di essere coltivata.


torna su


Recensione al volume:
AA.VV., Launeddas

L’Ortobene
8 febbraio 1998

UN LIBRO DI GRANDE VALENZA

di Dolores Turchi

Attratti dal fascino di uno strumento arcaico come le launeddas, scrittori e viaggiatori dell’Ottocento si sono soffermati a descrivere questo strumento musicale che tante domande suscita in chi ne ascolta la melodia.
Chi lo inventò? Donde viene? Nacque in Sardegna? Domande che sono una precisa risposta. La Sardegna lo conobbe senza dubbio in tempi antichissimi. Lo testimonia innanzi tutto il bronzetto nuragico itifallico trovato a Ittiri, che rappresenta un suonatore con uno strumento a tre canne. Ma il suo uso continuò ininterrotto nel tempo; infatti risulta presente sia nel periodo romano sia in quello medievale, attraverso la linguistica e l’iconografia.
Pittori e disegnatori del secolo scorso raffigurano i suonatori di launeddas che accompagnano il ballo sardo o che precedono il corteo nuziale, segno che allora se ne faceva ancora grande uso sia nelle feste che nei matrimoni.
Delle launeddas, della loro storia e del loro declino intorno alla metà di questo secolo, e infine del loro recupero ne parlano vari autori in un bel libro edito da AM&D e dalla ISRE, dal titolo “Launeddas”, curato da Giampaolo Lallai.
“Questo libro nasce dall’incontro tra la passione per la musica popolare isolana e la necessità di studiare profondamente le launeddas, offrendo ad un largo pubblico una visione globale su uno strumento che rappresenta una parte fondamentale dell’universo musicale della Sardegna”, scrivono nella prefazione Stefano Pira e Michele Ciusa, il primo in qualità di direttore editoriale dell’AM&D e il secondo in qualità di presidente dell’ISRE, l’Ente preposto alla valorizzazione del patrimonio culturale sardo.
Si tratta di varie ricerche fatte con impegno e serietà e documentate da un ricco apparato iconografico oltreché da una vasta bibliografia, senza tralasciare la citazione del fondamentale lavoro, basato su un’accurata ricerca sul campo che negli anni Sessanta aveva fatto il danese Weis Bentson, proprio quando era venuto a mancare un ricambio generazionale tra i cultori di questo strumento.
Era il tempo in cui le tradizioni venivano viste dagli stessi Sardi come indice di arretratezza culturale e, volendosi aprire al nuovo, si buttava a mare tutto ciò che sapeva di vecchio e arretrato.
I modelli d’Oltralpe sembravano più congeniali a una vita moderna e industrializzata che portava un benessere più diffuso, associato a un ascolto sempre maggiore dei mass media, che hanno contribuito efficacemente ad accelerare un certo processo di omologazione.
Fu allora che anche i suonatori di launeddas si ridussero ad un numero sempre più esiguo, lasciando il posto ai suonatori di rock e rischiando l’estinzione totale.
Pochi cultori, i più tenaci, e i meno refrattari alle insidie dei tempi moderni erano rimasti a garantire la continuità, per quanto ridotta, di uno strumento votato inevitabilmente all’estinzione, se negli anni ’80 un nuovo risveglio di coscienza non avesse scosso una parte del popolo sardo inducendolo a riappropriarsi di quella identità che andava sempre più perdendo.
Nel recuperare d’insieme alcuni volenterosi si impegnarono anche nella rivalutazione e valorizzazione delle launeddas, che sicuramente risultano tra i più arcaici strumenti a fiato del mondo mediterraneo.
Il libro, che comprende i contributi di ventuno autori, è diviso in tre parti. Nella prima parte si parla soprattutto del periodo d’oro delle launeddas e del loro declino, nella seconda dello strumento e delle sue tecniche di costruzione, nella terza parte delle sue radici storiche.
Le foto di Nico Selis arricchiscono e completano questo interessante lavoro che abbina all’aspetto conoscitivo anche una valenza artistica.


torna su


L’Unione Sarda

Fino a qualche anno fa, in Sardegna, le launeddas identificavano un popolo e una storia. 
E continuano a farlo, anche ora che vengono ingoiate da contaminazioni rock e jazz. 
La loro storia in un libro e nelle opere di Andrea Bentzon.
Antropologia e magia in un volume della AM&D, 
e nelle opere dello studioso danese Andrea Bentzon

di Bachisio Bandinu

Lo sguardo da lontano spesso è più acuto e intenso dell’osservatore da vicino. La Sardegna, vista da fuori, è stata analizzata, sotto molti aspetti, in maniera più approfondita rispetto alle indagini degli studiosi locali. Basti pensare a Wagner per gli studi sulla lingua sarda, a Le Lannou su pastori e contadini o al Viaggio in Sardegna di La Marmora.
Un tedesco, un piemontese e un francese. Studi molto seri che hanno saputo leggere in profondità la civiltà sarda aprendo prospettive di ricerca per latri studiosi. Certo, ci sono stati anche sguardi superficiali e un po’ di maniera da parte di viaggiatori che hanno creato per la Sardegna lo stereotipo di isola selvaggia, di terra vergine e di cultura primitiva.
Un osservatorio attento, finora meno noto eppure di grandissimo rilievo, è stato Andrea Bentzon, musicista danese, che venuto in Sardegna alla fine degli anni ’50 si era immerso nello studio delle launeddas, scrivendo due libri sull’arcaico e originale strumento. Ragazzo di 17 anni, appassionato di jazz, è preso da incantamento nell’ascoltare un suono dal ritmo ammaliante ed enigmatico. Non si libererà più da questo incantesimo sino alla morte che lo colse nel pieno delle sue ricerche all’età di 35 anni.
Libri, lettere, appunti, fotografie testimoniano l’appassionato studio di un particolare universo musicale dotato di una specifica identità di ritmo e di melodia.
A questi contributi di scrittura e di fotografia si è ora aggiunto un materiale filmico di grande rilievo. È merito di Dante Olianas aver ritrovato negli Archivi Danesi del Folklore a Copenaghen preziosi filmati e registrazioni che Bentzon raccolse durante i suoi viaggi in Sardegna tra il 1955 e il 1962. Così è nata una costruzione filmica, con la regia di Fiorenzo Serra, e la consulenza dello stesso Olianas, dell’etnomusicologo Pietro Sassu e del suonatore di launeddas Aurelio Porcu, dopo un paziente lavoro di montaggio e sincronizzazione di immagini e suoni.
Così Is Launeddas, la musica dei sardi è il primo documentario dedicato alla musica sarda. Sono 40 minuti di filmato che analizzano le launeddas come strumento musicale e come mezzo di comunicazione sociale. Vengono ripresi suoni, persone, luoghi, situazioni che danno testimonianza di vita popolare nel lavoro e nella festa. Sono riprese essenziali, senza un preciso intento di composizione unitaria che documentasse, in maniera canonica, usi e costumi della tradizione.
Materiale di ricerca, appunti di lavoro, rappresentazioni destinate ad elaborazioni successive. E tuttavia per noi oggi vengono ad assumere un rilevante valore documentario che rappresenta attraverso l’immagine in movimento importanti aspetti di vita quotidiana. I vari episodi non hanno una precisa struttura narrativa perché non c’era la volontà di documentare qualcosa da trasmettere come universo antropologico di una civiltà, e tuttavia questa rappresentazione visuale acquista un grande valore espressivo e mostra una profonda corrispondenza tra oggetto e segno, tra immagine filmica e realtà tridimensionale. L’immagine parla per se stessa senza la preoccupazione ostentativa dello spettacolo.
Andrea Bentzon intraprende un viaggio di iniziazione lungo un percorso reale e simbolico che va dalla canna del fiume allo strumento musicale. Alla ricerca di un suono. È il suonatore stesso che va alla scoperta della canna giusta per misurarne lo spessore, per osservarne la distanza dei nodi, rispettando il tempo stagionale dell’inverno e la fase di luna piena.
La magia del suono è ricercata alla sua fonte, nel taglio, nell’impugnatura, nella stagionatura: c’è una lettura anticipata dei tratti distintivi di vibrazioni e sonorità. Arte delle mani e lavoro del coltello giocano nella prospettiva del suono. Lo strumento lo si capisce nel farlo, lavorando e provando: ascolto e adattamento, oggetto costruito per prove ma secondo un’intuizione progettuale e una sapienza costruttiva.
E poi le accordature fondamentali e l’apprendimento delle tecniche di respirazione: tenere un flusso d’aria costante soffiando dentro lo strumento con le guance ed espirando contemporaneamente con il naso. Ogni strumento è originale, in piena sintonia con l’identità del suonatore: per questa magia i movimenti melodici delle launeddas danno al ballo un carattere maestoso e primitivo.
Merito dello studioso danese è stato quello di aver colto il rapporto integrale tra strumento, musica, dimensione festiva e contesto antropologico. Le launeddas infatti non hanno solo un significato musicale e un’importanza musicologica ma assurgono a ruolo fondamentale nel rito religioso e nella relazione sociale della comunità.
Un altro contributo importante viene dall’editoria con la pubblicazione di un libro bello e interessante Launeddas (AM&D - Isre), a cura di Giampaolo Lallai - Associazione Cuncordia e Launeddas.
Il volume, in pregevole veste tipografica, vanta il contributo di autori specialisti e di un ricco corredo iconografico. Le launeddas vengono esaminate da diversi ambiti di studio che vanno dall’archeologia alla musicologia, dalla storia dell’arte alla linguistica, dalla paleografia all’antropologia.
Lo strumento musicale più antico della Sardegna viene analizzato nella scelta del materiale, nella lavorazione artigianale, nella struttura dello strumento e nelle tecniche esecutive.
La parte iconografica offre la testimonianza archeologica del bronzetto itifallico di Ittiri, la raffigurazione del flauto in una miniatura medievale, numerose fotografie documentarie, a conferma di un lungo filo storico che attraversa tutta la civiltà dei sardi. Non meno interessante è l’analisi etnologica e sociologica che vede le launeddas come formidabile mezzo di aggregazione e comunicazione sociale. I giovani organizzavano comitati per i balli pubblici e ingaggiavano un suonatore per l’intero anno. Si era così creata una categoria di professionisti che veniva pagata in misure di grano o moneta tanto da permettere un discreto tenore di vita.
Al periodo d’oro dell’Ottocento e delle prime decadi del Novecento successe il declino degli anni Trenta, soprattutto con le nuove leggi di pubblica sicurezza che disciplinavano i mestieri girovaghi e lo svolgimento dei balli in luoghi pubblici. Ma dopo la più generale trasformazione antropologica degli anni Sessanta, che ha stigmatizzato come negativa tutta la tradizione sarda, è rinato uno straordinario interesse per il patrimonio musicale. Per valorizzare le launeddas sono sorte associazioni culturali, scuole frequentate da molti giovani, gruppi che tentano un impiego dello strumento tradizionale in contesti sonori inediti.
L’obiettivo più immediato è la creazione di un Istituto per lo studio della musica sarda, la difesa della classicità della musica etnica e del suo insegnamento nei Conservatori di specializzazione.
Un argomento da elaborare con maggiore approfondimento è il rapporto tra musica delle launeddas e altre esperienze musicali, in particolare con jazz e rock. Il pericolo è nelle armonizzazioni arbitrarie e negli adattamenti superficiali. Certamente non c’è una forma “originaria” della musica popolare, ogni processo è storico e dunque nella prospettiva di evoluzione e innovazione ma per linee interne e per confronti produttivi. L’adattamento alle sonorità del nostro tempo richieste immersione antropologico-musicale e creatività artistica.
Altro discorso è l’impiego di formule ritmiche tradizionali o l’inserimento di un suono o di una melodia di musica popolare in altri contesti musicali, da inserire come una pietra preziosa in un’altra cornice. Sono certamente stimolanti i contatti e le interferenze tra musica etnica e altre musiche, l’importante è che l’esperienza produca ricchezza musicale ed elaborazione stilistica, nel rispetto delle cellule melodiche fondamentali. Anche quella musicale è un’identità in cammino.
Magari si potrebbero distinguere due modelli musicali delle launeddas, uno tradizionale che rappresenta l’identità ereditaria e che può sperimentare nuove elaborazioni per linee interne, un’altra invece aperta ai processi di contaminazione con altre esperienze musicali purché garantite da un’intelligenza creativa.
Ma più di qualunque discorso vale la musica: si tratta di disporsi all’ascolto per essere presi da fascinazione. 


torna su


Recensione al volume:
Antonangelo Liori, Racconti della montagna

La Nuova città
maggio-giugno 1998

In un intenso volume di Antonangelo Liori
INQUIETUDINI E RITMI SEGRETI

di Gianni Pititu

Il mese scorso è stato presentato alla Biblioteca Satta il libro “Racconti della montagna” di Antonangelo Liori, direttore del quotidiano “L’Unione Sarda”.
Sono intervenuti lo scrittore Bachisio Bandinu, il prof. universitario Carlo Felice Casula; il giornalista Gianni Pititu, l’editore Stefano Pira.
Al breve dibattito hanno partecipato Cesare Pirisi e il poeta Giovanni Piga.
Siamo lieti di poter pubblicare integralmente l’intervento di Gianni Pititu.

Sono un uomo di campagna, scrive Antonangelo Liori presentando il suo libro. E di montagna, naturalmente. In un uomo di campagna, prestato alla città, e anche se inconsapevolmente contaminato, può capitare che si innesti quel processo di ricerca dell’identità che porta a scoprire le vecchie radici ma anche a soffrire per esserne allontanato e ad accorgersi che è impossibile che qualcuno di quegli stracci uniti da un filo invisibile, quello dei ricordi, non si sia lacerato e sia stato strappato per sempre a quell’io che è il protagonista del libro, cioè l’autore stesso.
E sì, perché in tutti questi racconti, c’è l’autore con le sue inquietitudini, i suoi pentimenti, le sue esultanze, le sue aspirazioni, le sue incertezze, il suoi ritmi segreti.
Difficile dire se quest’io che narra e che sa abbia raggiunto l’equilibrio di chi, strappato al suo mondo fatto di semplicità e modestia e verità;, e poi approdato in un altro fatto di esuberanza, di ipocrisia, di convulsione.
Ma, per paradosso, ricostruzione o solo rammentare le proprie radici serve per capire l’oggi e per non smarrirsi. È l’ancoraggio ultimo e provvidenziale, estremo e salvifico.
Contos o racconti? Detto che il racconto è, a mio giudizio, il cimitero più arduo, più arduo ancora del romanzo, mi sono chiesto se Antonangelo Liori scriva racconti perché è il terreno a lui congeniale, quello che gli consente di esprimersi al meglio; o se i racconti non sono altro che contos trasposti all’oggi; e poi ancora se egli scriva per sé o per i lettori.
La risposta è implicita nello stesso filo conduttore del libro, in quell’io cioè che detta ogni riga e che impersona ogni azione raccontata. L’io autore che scrive per se stesso ma che chiede agli altri di seguirlo, che sceglie il racconto come forma più diretta per narrarsi e far giungere all’esterno il messaggio, che prende a piene mani dai contos non tanto in senso contenutistico quanto letterario, trovando un modus narrandi ideale, assolutamente consono al proprio stile di scritture e alla propria esigenza descrittiva.
Cronache immaginarie? Nulla vi è di immaginario in questi racconti. Tutto è calato in una realtà specifica, unica, perché propria dell’autore, sua, vissuta e conservata e preservata, calata interamente nel suo essere sino a farne l’uomo che egli oggi è, e che non potrà mai staccarsi da essa, da quel tempo magico che lo ha segnato e di cui oggi vede l’estinzione. Su fochile, la minestra di fagioli, le castagne secche non sono che sapori e profumi e sensazioni che tracciano quella via dei sensi in cui l’autore cammina a fatica, trattenuto e deviato dalle sollecitazioni della città e alla quale egli si aggrappa come ultima risorsa ed estrema consolazione.
Il libro è attraversato da contrapposizioni: il bene e il male, la vita e la morte, la bellezza e l’orrore, la saggezza e l’improntitudine, il sacro e il profano, la semplicità e il contorcimento essenziali, la devozione e il tradimento, la vendetta e il perdono.
Quel perdersi in mille rivoli, quello sprecare passi in viaggi vani, quel cercare nella solitudine e nelle pagine antiche il conforto agognato e mai raggiunto, quel piacere del conoscere e del dare che è proprio solo della cultura tratteggiano la personalità di questo scrittore, che è sensibile e vulnerabile, fragile e incerto ma che ha avuto in dote dalla montagna l’alterezza, la dignità, la forza per non farsi depredare ma che al tempo stesso costituisce la sua macerazione e il suo stordimento.
L’ultima predica del prete del paese ormai spopolato è la predica pronunciata da chi scrive. Una spasmodica ricerca dell’io perduto che ad ogni racconto ripete il suo credo, il suo diritto di esistere ancora. E quel paese con le greggi che ritornano, i pastori che cantano nelle bettole, le urla gioiose dei bimbi nelle case, le madri che filano e tessono, i vecchi che raccontano è il suo paese, diciamone pure il nome, Desulo, e quello ideale in cui tutti dovremmo tornare. Un paese ci vuole, solo per ritornarci, solo per ritornarci, ha scritto Pavese.
La compattezza nella solidarietà, quell’essere gli uni per gli altri è principio smarrito per sempre. E quei ragazzi coi gambali sono gli eroi in procinto di essere sconfitti e quelle ragazze da marito che si fanno belle come fate sono visioni in irresistibile dissolvenza. O sono ricordi che, trasporti al presente, resistono anche nella realtà d’oggi? Un dilemma che lo stesso autore non sembra incline a svelare.
L’autore si apre, si mostra in tutta la sua solarità nelle tante massime disseminate nel libro. «L’uomo fa ciò che il destino gli ha imposto». E il destino si impone anche al bandito, al forzato dell’emigrazione, alla donna costretta a casa, al predestinato alla vendette. È il destino l’arbitro assoluto: destini avversi e destini propizi, più quelli che questi, in una terra feroce e dolce, selvaggia e sincera come la Barbagia.
«Inutile vivere sino a cent’anni senza sapere il perché». Per questo Liori vive in modo convulso, per dare un senso. Un giorno mi ha confidato: questa frenesia mi condurrà alla fine. Ma non se ne vuole affrancare, proprio per la convinzione che essa stessa è la vita.
E allora dov’è la semplicità, la saggezza degli avi (altra costante che attraversa queste pagine) che predicano moderazione, il messaggio della montagna che nella solitudine e nella desolazione, anche nella povertà e persino nell’indigenza dava la forza al pastore che era solo con e contro la natura ma bastevole a se stesso?
Ritorna la contrapposizione, la lotta fra ciò che si è stati e ciò che si è, fra ciò che vorremmo ancora essere e ciò che non possiamo più essere. Perché la vita segue «percorsi imprevedibili», nei quali noi poco possiamo.
«Un’amicizia troppo grande, se finisce, diventa odio feroce». C’è la Barbagia qui. C’è il destino che, come nelle tragedie greche, si impone all’uomo.
Ancora contrasti: la bellezza altera e la tempesta del tempo che la distrugge, le mani d’ape, la voce di miele, leggera come un soffio d’autunno, l’occhio del sole. Una bellezza più bella dell’autunno ma che può diventare più fredda e crudele dell’inverno.
Ma il contrasto estremo o meglio di dilemma ultimo è un ritorno alla condizione di miseria che pone l’interrogativo incredibile: rubare per i figli che hanno bisogno è peccato? «Il giorno di Natale lo trascorsi cercando di capire cosa era accaduto al mio padre adorato. Che non era per me, né lo era in assoluto, un delinquente. Aveva solo cercato di vivere meglio di quanto glielo consentissero le sue condizioni, per offrire ai suoi figli un briciolo di serenità in più e per fare in modo che almeno uno – io, sul quale nutriva questa fiducia – potesse studiare e laurearsi; “Saresti il primo studiato della mia famiglia”, mi aveva detto un giorno: “Peppe non ci è portato, ma tu sì. E il giorno che sarai laureato la gente dirà: Bobborrissina ce l’ha fatta, ha un figlio laureato. E tu potrai aiutare la famiglia perché saprai almeno scrivere una lettera, e parlare negli uffici, e discutere con quelli che portano la cravatta e decidono sulla vita dei poveri”».
La vita così se ne va. L’io narrante sente e rivela che sta invecchiando. Ma gli resta ancora molto da dire: dei sortilegi e il loro mistero, del Natale e della sua magia, dell’uccisione in die nodida, del carro con il morto ammazzato che irrompe nel paese e degli uomini stringono il berretto fra le mani, segno drammatico e sublime di dolore.
Altre due massime che sono tutte di Liori. La prima è una verità, la seconda è un’aspirazione: «Per imparare bisogna essere umili», «la vita è migliore quando si è sereni». Riaffiora l’uomo di Barbagia: «quando le persone non sono dove dovrebbero essere è sempre meglio sospettare. E quando qualcuno è troppo pressante nel trattenerti è sempre meglio andare». «Ciò che più conta nella vita non è il denaro che si possiede ma gli amici che si possono annoverare». E quel cinghiale, che è animale sardo per eccellenza. E quella mosca che gira e ronza e che è quell’io che non trova pace e non sa ritrovarsi, che si smarrisce e che però è vitale, senza sonno e pieno d’affanno.
I labirinti sono ricordi, ricerca di sé, sono la casa paterna, dei nonni, sono gli avi dalla rievocazione mitica e dolente, sono gli uomini e la campagna, un mondo perduto al quale si chiede di tornare.
E tanti interrogativi cruciali: parteggiare o no per il bandito? («Giovanni Serrittu fu un eroe negativo, ma può essere forse considerato un po’ come il simbolo di tutte le contraddizioni di una terra dove muoiono i fiori nel giorno di San Giovanni»). E la morte in Barbagia è una maledizione o un accidente oppure una fortuna? E lo stesso abbigliamento, quell’antico vestito de belludu è la costante resistenziale della nostra identità, l’orgoglio della nostra appartenenza o è la gabbia entro cui siamo chiusi e dalla quale non riusciamo a liberarci?
La discrezione («l’anima dev’essere oculata in una tasca da chi ha buon senso») è balentia o pudore? E il coltello è arma di offesa e di difesa, è espressione di forza o solo consapevolezza di autonomia, di autoprotezione? E il vento di Orune è l’anticamera del suo cimitero o il segno di una forza naturale che vuole sconfiggere, infliggendola ai buoni, la malvagità degli uomini E la donna barbaricina è un mistero irrisolto o l’entità stessa del nostro male? E il carnevale è espressione di coraggio o rivelazione di paura? E la stessa Passione di Cristo rappresentata nei nostri paesi è morte? E il pastore col suo libricino di preghiere è ancora un eroe o un debole?
Alla fine, di tutto questo intrico di sensazioni, di umori, di emozioni, che «non potranno essere chiusi in luoghi diversi dal nostro cuore», resta la grande nostalgia di un’esistenza, quella della montagna, segnata dall’avvicendarsi del giorno e della notte, ritmata dalle stagioni, cadenzata dalla saggezza dei vecchi, ispirata al rispetto della natura e degli uomini.
Essenziale come la povertà. Modesta come la terra. Sincera come l’acqua. Passionale come il fuoco. Pura e crudele. E noi siamo qui non a rimpiangerla ma a rivendicarne le certezze, il valore, la filosofia, i contrasti, il mistero. Perché si vive solo se si hanno domande profonde. Perché la vita, come dimostra questo libro, è sempre originale e basta trascriverne le invenzioni e gli incanti, gli orrori e le ambiguità per creare racconti intensi e propositivi.
Racconti che sembrano evocare e celebrare la gioia di vivere, la bellezza dei paesaggi, l’odore e il sapore dei cibi, il fiorire e il fuggire dei sentimenti e sui quali pesa tuttavia una malinconia immensa che sembra provenire dal passato, che canta e fugge come il canto di un violino o il mormorio di un fiume. E noi siamo qui ad ascoltarne gli ultimi tenui, ormai impercettibili suoni.


torna su


Recensione al volume:
Salvatore Tola, La poesia dei poveri. La letteratura in lingua sarda

La Nuova Sardegna
6 gennaio 1998

NELLA TERRA DELLE MUSE
UN INVENTARIO PREZIOSO DI MEMORIA SARDA

di Manlio Brigaglia

Come diceva il padre Bresciani, a metà del secolo scorso: «Io vi prometto, che in Gallura e in Barbagia, e per tutte le montane parti dell’Isola vi menerei per mano a udir pastori e bifolchi dialogizzare le ore intere per versi all’improvviso, con tale grazia, vivacità, arguzia e copia di sentenze e di guizzi poetici da farvi esclamare: qui siamo in terra delle Muse». Muse d’un paese arretrato, d’una civiltà di pastori e contadini sempre ai limiti della sopravvivenza: la «poesia dei poveri», come è intitolato il bel libro che Salvatore Tola ha dedicato, come dice il sottotitolo, alla letteratura in lingua sarda.
La tesi centrale del libro è che la letteratura prodotta in Sardegna in lingua sarda è stata, per secoli, quasi esclusivamente poesia orale. Se non proprio a cominciare da Tigellio, il poeta-cantore che le false carte d’Arborea dicevano nato a Ploaghe, ma che era un personaggio storico, preso di mira da Orazio: se non proprio da lui, certo dai secoli più antichi. Questa letteratura, che si esprimeva quasi sempre nelle forme della poesia in rima, più facile ad incidersi non solo nella memoria ma anche nella coscienza collettiva, è stata a lungo quasi l’unico modo di espressione di sentimenti, passioni, speranza, bizze, malumori e dolori delle comunità isolane. Anche gran parte della poesia considerata “scritta” (come quella di “Padre Luca” Cubeddu o Pietro Pisurzi, che sul declinare del Settecento fondarono quella che potremmo chiamare la tradizione moderna della poesia sarda) era nata in realtà come una poesia improvvisata: che poi, col diffondersi dell’attenzione romantica alla poesia popolare, cominciò sempre più di frequente ad essere messa per iscritto da studiosi e ricercatori. La letteratura orale, dice Tola, per essere definita tale deve avere tre caratteristiche essenziali: «l’oralità della composizione, cioè l’improvvisazione; della comunicazione, ossia la performance e l’esibizione; della trasmissione, quando è affidata alla memoria». Una quarta caratteristica essa aveva almeno in passato: nella poesia orale – ha scritto Michelangelo Pira – il pubblico aveva «l’impressione e il piacere di comporre» attraverso la voce del poeta, «organico alla sua comunità».
A questa organicità a una massa indistinta e per lunghi tratti pensata come senza divisioni di classe (una tesi piuttosto difficile da accettare, anche quando vi accennino antropologi straordinari conoscitori delle comunità interne come lo stesso Pira) va forse addebitata quella vocazione della poesia orale a tenersi nel (giusto?) mezzo, a non mettere in crisi le istituzioni della società e della religione. Tola estrae, dal lungo inventario di temi e di forme che ha messo a punto in questo libro, l’affermazione che «il dato più evidente è lo stato di subalternità in cui si trovavano le masse popolari, e il relativo intento dei poeti di contribuire a mantenerle in quella condizione».
Altri ha notato, come lui, in questi poeti che pure si facevano voce della comunità, «visione delle cose e linguaggio improntato a prudenza, moderatismo, conservatorismo». Può aver avuto un ruolo, in questo, la folta presenza di sacerdoti-poeti (Melchiorre Dore e Diego Mele, per dirne solo due): ma deve aver contato anche il fatto che quella società era, fin ben dentro l’Ottocento, una società d’ancien régime, in cui quella “subalternità” si era incarnata negli istituti della soggezione ai dominatori di turno e, a partire dall’arrivo degli Aragonesi, dell’oppressione feudale.
Detti così, in larga sintesi, sono alcuni dei tanti temi che la lettura di questo libro immediatamente suggerisce. Tola ha raccolto e sistematizzato migliaia di versi appartenuti alla tradizione orale, prima e dopo quella manifestazione che fu la consacrazione di questa «poesia dei poveri»: la gara poetica di improvvisatori organizzata da Antonio Cubeddu, in piazza ad Ozieri, nel 1896.
Ma non ci sono solo gli improvvisatori “professionisti”, nel libro di Tola: ci sono tutti – e spesso sono le voci anonime dei muttos e dei muttetus – quelli che hanno espresso in versi i moti individuali e collettivi dei sardi. Già da sola questa sorta di vasta antologia intorno alla quale è costruito il discordo critico è un lavoro di grandissima importanza, specie in un momento come questo in cui tutto quello che riguarda la lingua sarda (dal suo declino alla sua “difesa”) deve confrontarsi non solo con grosse fette di indifferenza al tema ma anche con lo strapotere mediatico e istituzionale di altre lingue, a cominciare dallo stesso italiano.
Tola, che fa anche il conto delle decine e decine di concorsi di poesia (scritta, questa volta: perché, come dice, in questi ultimi decenni «l’oralità si è venuta gradatamente ‘impastando’ con la scrittura») che si organizzano oggi in Sardegna, è meno pessimista di molti altri sul destino della lingua regionale: e se la citazione finale di un rap tutto sardo dei Mogoro Posse è una bella invenzione a concludere, non c’è dubbio che la lingua sarda ha più risorse e più capacità di resistenza di quanto qualche volta ci capita di accreditarle.
La poesia dei poveri. La letteratura in lingua sarda di Salvatore Tola, AM&D, Cagliari, 336 pp., 28000 lire.


torna su


S’Ischiglia
febbraio 1998

LA POESIA DEI POVERI DI SALVATORE TOLA

Per i tipi delle AM&D Edizioni di Cagliari, in bella veste tipografica, è comparso di recente il libro di Salvatore Tola, La Poesia dei poveri, la letteratura in Lingua Sarda (pagg. 331, lire 28.000).
Si tratta di un bel libro!
La prima cosa che colpisce il lettore nella lettura di quest’opera è l’atteggiamento di …pia e profonda simpatia che l’Autore mostra nei confronti della poesia – diremo così – “popolare” in lingua sarda, simpatia che regge perfino di fronte a componimenti del passato, anche recente, quali pochissimo o addirittura nulla avevano di “poesia” e cioè di “arte”.
Versi sgangherati, zoppicanti sia nel ritmo che nella rima, di autori noti ed anche non noti, vengono analizzati dal Tola con grande pazienza e con sentita comprensione, in vista del fine che egli si è prefisso di offrire un quadro ampio ed austivo di quella che è stata ed è la “poesia dei poveri”, dei poveri Sardi. Su questo piano il titolo dell’opera del Tola non poteva essere azzeccato meglio. In … ordine di idee l’Autore presenta anche un quadro ampio ed approfondito della “poesia da palco”, ossia di quella dei poeti improvvisatori, che molto fiorenti ed …irati nel passato, sono molto lungi …scomparire nel presente.
…ovviamente l’Autore non si limita alla analisi della “poesia popolare” in lingua sarda, ma pian piano si eleva alla considerazione e all’analisi della poesia colta, che già nell’Ottocento, ma soprattutto nel cinquantennio succeduto alla II guerra mondiale, ha raggiunto i vertici della vera e grande arte. In questo l’Autore è stato facilitato nel suo studio dalla sua lunga attività di membro delle commissioni di premi letterari in lingua sarda che si sono svolti e si svolgono tuttora in tutta l’Isola.
Su questo piano, già dal punto di vista documentario; nessuno avrebbe potuto essere più e meglio informato di Salvatore Tola. Ne è derivata un’opera che più completa non poteva essere nel presentare un quadro ampio e dettagliato dell’intera poesia scritta od espressa in lingua sarda.
Ed il Tola dice di condividere appieno quanto io avevo avuto modo di scrivere qualche hanno fa: “I poeti sardi sono quelli che in quest’ultimo cinquantennio hanno contribuito meglio di tutti gli altri alla conservazione della lingua sarda e che hanno predisposto la migliore base per il suo recupero e per il suo rilancio”.
Nell’opera del Tola converge anche l’intera produzione critico-analistica degli autori che lo hanno preceduto, autori dei quali viene citato non soltanto il pensiero, ma vengono riportate anche numerose frasi testuali, ai fini di una oggettività ed onestà di documentazione e di giudizio.
Molte pagine il Tola ha dedicato al passaggio travagliato e – quasi incredibile a concepirsi – spesso perfino ostacolato e respinto, dalla poesia in lingua sarda dalla fase della oralità a quella della scrittura. Ostacolo e repulsione esercitati dai “poeti da tavolino”… Giustamente insistita e sottolineata è la considerazione che, nella lunga fase dell’oralità, gli elementi del ritmo e della rima hanno costituito una esigenza indispensabile per la trasmissione della poesia di generazione in generazione.
Infine si deve anche dire che l’opera del Tola è scritta in una bella e perspicua forma italiana, nella quale non una sola parola risulta scritta in più oppure in meno. Concludendo e ripetendo: quello di Salvatore Tola è un bel libro, del quale non potranno fare a meno tutti coloro che abbiano un sia pur minimo interesse per la letteratura e, più in generale, per la cultura dei Sardi.


torna su


Il Provinciale oggi
1 giugno 1998 
Rubrica: Cultura Costume

di Giovanni Giacu

“La lingua sarda è stata per me, all’inizio, niente più che un sommesso bisbigliare in una sala cinematografica. Iniziai a comprenderlo soltanto quando, nel 1954, ci trasferimmo in Sardegna: capitava più di oggi di sentir parlare il Logudorese e il Sassarese, e di tanto in tanto anche il Gallurese, sia nella periferia di Sassari, dove ci eravamo stabiliti, che nel paese di mio padre. Poteva essere il grido dei venditori ambulanti; o il canto dei contadini che passavano sul carro o in bicicletta, oppure, al paese, il saluto tra la donna affacciata sulla porta di casa e lo zappatore che si avviava verso i campi, o ne tornava. Tutta la giornata era scandita da frasi, battute e modi di dire che dovevo necessariamente penetrare; come anche i racconti che il nonno, vecchio e saggio come un patriarca, mi faceva, solo in sardo, per rievocare episodi della sua vita, fatiche, imprese, personaggi”. Esordisce così il saggio di Salvatore Tola: “La Poesia dei Poveri”, dedicato alla letteratura in Lingua Sarda.
Il testo che si snoda in un percorso di 18 capitoli, mette in evidenza il travaglio e la bellezza di una cultura poetica dai molti ritenuta inferiore, perché non ha avuto mai la possibilità degli onori della grande letteratura: era redatta in sardo. Molti studiosi, anche sardi, “pur coscienti del valore della lingua sarda, erano influenzati dal presupposto che essa, se non altro per il rapporto in cui veniva a trovarsi con l’italiano, fosse da destinare ad un ruolo subalterno, come una «lingua B, che è la lingua dei soggetti» di fronte a una «lingua A, che è la lingua del potere”. Sembra un assurdo, ma molto spesso ciò che di più bello possediamo non viene accolto, si preferisce altro.
In questo saggio, il Tola, oltre a descrivere ed analizzare il percorso storico del fenomeno poetico in Sardegna, compie un’operazione culturale di notevole interesse: svela il fascino della poesia in lingua sarda ai sardi. Nelle 331 pagine che compongono il saggio, s’incontra il mistero di un mondo poetico che penetra oltre la quotidianità, i recessi più reconditi dell’animo umano. Vi è l’incontro con il “disvelarsi” dell’uomo, che affida a dei versi la propria storia, i sentimenti, la gioia e il dolore. Vibrazioni che possono essere colte nelle svariate testimonianze poetiche che il Tola propone nella specificità della lingua sarda: “Dai su primu istante/ chi eo pro acasu ti miresi/ luego fattu amante/ servireti costante proponzesi;/ fatu luego amante/ proponzesi servireti costante./ Tue ses su tesoro,/ tue su bene meu, sa mia vida,/ a tie sola adoro/ a tie sola ap’in coro imprimida”.
La poesia dei poveri, ci invita all’ascolto dell’altro. Ascolto qui dice custodia: quei versi, quelle parole che l’animo dei poeti ci hanno donato durante i secoli, non sono nostri, di noi che stiamo all’ascolto, ma provengono da fuori, dall’altro, che ci parla, che viene a noi. La custodia di questi versi comporta il riscoprire un amore perduto, che si erge come giudice a chiedere giustizia per il nostro tradimento. La custodia di questo bene che è la poesia, comporta quindi corrispondenza all’amore, nell’amore, al proprio essere e divenire, per evitare di trovarci come uomini senza memoria e radici.
La parola poetica eccede l’ascolto, perché il silenzio da cui proviene eccede la parola. E pertanto la parola poetica, parabola del silenzio, apre l’ascolto all’abisso del proprio essere, impedendo così di dimenticare il messaggio che questa poesia vuole trasmetterci, e la conseguente chiusura con travagli della nostra storia personale e comunitaria.
Parafrasando Dostoevskij, permetteteci porre questa domanda: Quale bellezza salverà la Sardegna? Crediamo la poesia. “Siamo ancora in tempo: la nostra non è ancora per fortuna una “reliquia” ma una “sopravvivenza”: il senso dell’identità è forte e vivo; la memoria di come eravamo non è spenta; secoli di civiltà orale mostrano le loro tracce. Gli elementi positivi del passato vengono riscoperti giorno per giorno e si fanno evidenti; è a portata di mano la possibilità di isolarli e riprenderli potenziandoli. …Se ci voltiamo indietro ci accorgeremo di essere «diversi e forse migliori di quel che ci hanno fatto credere». …La distruzione di antiche e venerande culture è una perdita per l’umanità intera; ma soprattutto, aggiungiamo noi, per quanti in una di quelle culture hanno avuto i propri nutrimenti profondi, anche se possono averli poi dimenticati o rimossi”.


torna su


Il Messaggero Sardo
novembre 1998
Rubrica: Cultura 

“LA POESIA DEI POVERI” 
PRESENTATO A TORINO AL SALONE DEL LIBRO

di Paolo Pulina

L’ultima ricerca di Salvatore Tola La poesia dei poveri. La letteratura in lingua sarda (Cagliari, Edizioni AM&D, oltre 330 pagine) è stato presentato al salone del Libro di Torino (il 24 maggio, relatori l’autore e Giacomino Zirottu) e il 14 giugno presso il Circolo “Domo Nostra” di Cesano Boscone (presieduto da Giovanni Cervo relatori l’autore e il socio Piero Ruzzeddu).
Quest’opera è di grande interesse per gli emigrati, dei quali Tola (appassionato curatore, come sappiamo, di una regolarissima e apprezzatissima “pagina della poesia in sardo” sul nostro “Messaggero”) sottolinea una speciale risorsa “critica”. Scrive infatti l’autore in uno degli ultimi capitoli del suo libro a proposito della tentazione della “piccola borghesia locale” di cercare di superare il “congenito complesso di inferiorità con l’adozione della lingua e della cultura ufficiali, cancellando allo stesso tempo quelle locali”. «Sembra che non si riesca neppure a far tesoro delle esperienze dell’emigrazione, che pure sono state così intense e molteplici, oltre che dolorose, negli ultimi trent’anni i più maturi tra coloro che sono stati proiettati lontano hanno capito quanto sia importante avere alle spalle una cultura, una civiltà, una lingua; e che si entra meglio in contatto con gli altri quanto più radicata è la consapevolezza che si ha della propria identità, diversità e originalità”.
Anch’io ho letto questo affascinante volume ponendomi dal punto di vista dell’emigrato, cioè dall’osservatorio valorizzato da Tola nel brano sopra citato.
Mi è sovvenuto subito il ricordo di un’esperienza personale. A diciotto anni, su sollecitazione del prof. d’italiano, Manlio Brigaglia, trascorsi le vacanze estive del 1966 (dopo la seconda liceo all’Azuni di Sassari) lavorando a una ricerca su «La poesia dialettale in Sardegna negli anni 1963-1965», che ebbe una segnalazione speciale da parte delle giuria del “Premio Ozieri” di quell’anno e che pubblicai a stampa a Pavia nel 1982.
Si trattava di verificare – attraverso un’analisi quantitativa dei componimenti poetici nelle diverse varianti della lingua sarda apparsi in Sardegna nel triennio in esame – quali echi in essi vi fossero delle tematiche sociali, economiche, politiche e culturali che venivano agitate in Sardegna in quegli anni cruciali per le ipotesi di sviluppo prefigurate dal “piano di rinascita”.
Quel mio lavoro da studente liceale interessò, agli inizi degli anni Settanta, il compianto Sergio Antonelli, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università Statale di Milano, ma non fino al punto di autorizzarmi a svolgere una tesi di laurea che fosse continuazione e approfondimento dell’argomento, superando ovviamente i limiti temporali dentro i quali avevo circoscritto la mia indagine. Con una battuta potrei dire, se avessi avuto quella autorizzazione, Salvatore Tola avrebbe potuto risparmiarsi una parte della sua veramente encomiabile applicazione all’argomento non dimentichiamo che Tola, anche se di padre sardo, non è nato in Sardegna: è molto bello il primo capitolo dell’opera, in cui l’autore di origine “continentale” racconta l’apprendimento della lingua e l’approfondimento della conoscenza della poesia sarda. In effetti, anche in un arco temporale di secoli e non di alcuni anni, Tola non può non riconoscere la validità delle osservazioni formulate agli inizi degli anni Sessanta dallo studioso Michelangelo Pira relativamente alla sostanziale (fatte quindi le solite doverose eccezioni) delle espressioni poetiche in lingua sarda. Scrive Tola: «Il dato più evidente è lo stato di subalternità in cui si trovavano le masse popolari, e il relativo intento dei poeti di contribuire a mantenerle in quella condizione: salvo qualche accenno di protesta l’espressione poetica in lingua sarda per rivendicare, il tono generale è di acquiescenza e rispetto verso le autorità e di chiusura verso le più drammatiche questioni sociali e politiche».
Sono andato a rileggermi le direttive per la stampa emanate nel 1931 dall’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio fascista nucleo del futuro Ministero per la Cultura Popolare, il famigerato MinCulPop): «Non pubblicare articoli, poesie, o titoli in dialetto. L’incoraggiamento alla letteratura dialettale è in contrasto con le direttive spirituali e politiche del regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione, sono residui di secoli di divisione e di servitù della vecchia Italia”.
Anche dopo il crollo del regime fascista – che, come risulta, intese soffocare ogni espressione in dialetto quelli che hanno poetato in lingua sarda difficilmente si sono immessi nella “corrente progressiva”, hanno spesso invece preferito un percorso a ritroso nel tempo, inseguendo le forme e i contenuti dell’Arcadia, fuori di ogni contatto col reale e in particolare lontani da qualsiasi contaminazione col reale storico che superasse il perimetro del proprio villaggio.
Anche uno studioso pur benemerito nella raccolta della poesia popolare e d’autore in lingua sarda come il canonico Giovanni Spano (meritevole di commemorazione in questo 1998 in cui ricorre il 120º anno dalla morte; personaggio al quale peraltro Tola ha dedicato un’attenzione particolare, curando la pubblicazione, agli inizi del 1998, dell’importante Autobiografia, intitolata Iniziazione ai miei Studi, uscita presso le Edizioni AM&D e finora inedita in volume), non solo in quanto sacerdote, ma in quanto rappresentante di una visione del mondo di tipo conservatore, non può certo costituire un modello per una concezione progressiva della storia.
Solo negli ultimi anni – come Tola documenta – si è usata l’espressione poetica in lingua sarda per rivendicare diritti. Il libro si chiude con un rap in sardo del gruppo “Mogoro Posse” - “Balentia” in cui tra l’altro si dice: «Cussa chi immo’ tui intendisi e’ sa boxi ‘e sa Sardegna / arrebella contra totu is ingiustizias ca no tei bregungia ‘e fueddu, ma sa rima e’ sempri pronta / e ti sfunda’ su ciobreddu, ti intrada me in sa conca; / sa poesia de sa ‘ia, su rap, sa limba sarda, / sa boxi de protesta de sa genti pru’ bastarda».
Un libro pubblicato da Garzanti-Scuola, dedicato al Rap e curato dallo studioso pavese Massimi Depaoli, cita un altro rap (di “Sa Razza”) in lingua sarda. I concetti sono simili: «Su rap slang sardu ci arricheriri de prusu / poitta su presciu dessu sardu du deppis difendi / custa e’ sa causa poitta seus rappendi / ma s’unica speranza po sa genti mia / soprabbivi in noi / soprabbivi in sa ‘ia /... / Manna ‘e sa ‘ia, cesti postu po tui puru / ci bivvu sì ma non spaccio e non furu / pozzu usai su fueddu in rima giai / non lassu nudda aintru, seusu in dusu a du rappai /».
Il versante della cultura orale consente di colloquiare in modo interculturale: la mia ricerca del 1966 immediatamente interessò colleghi bibliotecari attivi nella realizzazione di un momento canonico (l’ora del racconto) dell’attività delle biblioteche per ragazzi in Francia.
Il libro è presentato nella collana “I griot”, che sono gli antichi raccontatori africani. (Ha detto in un’intervista un rappresentante del Mali trapiantato in Italia: «La nostra cultura ha una tradizione essenzialmente orale. Il compito dei griot, una specie di cantastorie, è quello di tramandare la cultura da padre in figlio, da famiglia in famiglia. Possono essere paragonati a giornalisti o a messaggeri che portano le notizie alle famiglie»).
Estremizzando, cioè assumendo fino in fondo l’atteggiamento giustamente protettivo di Tola (nei confronti del patrimonio spesso misconosciuto che è costituito dalla poesia improvvisata) anche nelle biblioteche e nelle scuole sarde dovrebbe essere riservato uno spazio agli improvvisatori e alle loro competenze orali.
Manca nel libro una citazione da Pasolini e forse è un bene. In una sua ben determinata (quindi, assolutamente mediata) posizione di difesa del paradiso che sarebbe rappresentato dalla campagna non inquinata dalla civiltà industriale, contenuta nell’Introduzione all’antologia della poesia popolare Canzoniere italiano (Parma, Guanda, 1955, poi ripubblicata da Garzanti nel 1972), Pasolini osservò che, in una civiltà di poveri come quella barbaricina in particolare e sarda in generale, la ricchezza è costituita dalle pepite d’oro delle espressioni dei mutos: “Data la sproporzione tra il centro civilizzatore e dominante e l’isola quasi dimenticata, possedere un pezzo di prato o un tugurio in Barbagia è un possedere in assoluto: tale da consentire la pretesa di una poesia eletta. I mutos sono come degli umili oggettini d’oro in una regione dove altro oro non si possiede...”.
Forse è venuto il tempo di affermare che l’oralità, e magari anche i libri che tramandano oggi l’oralità, si apprezzano di più se non si è costretti a far la fame: ispiratrice di grande poesia (vedi il personaggio di Mastru Juanni) se non supera un certo limite...


torna su


Recensione al volume:
Giovanni Lilliu, L'Archeologo e i falsi bronzetti

La Nuova Sardegna
3 maggio 1999

I FALSI BRONZETTI E I FALSARI DI SEMPRE
L’INCREDIBILE «GIALLO» DEGLI IDOLI SARDO-FENICI RICOSTRUITO DA GIOVANNI LILLIU

di Leandro Muoni

I sardi di oggi, al pari di tanti nostri connazionali delle altre regioni, si dividono sostanzialmente in due categorie: quelli che vorrebbero «riprendersi la Sardegna» e quelli che vorrebbero «assicurarle un avvenire migliore». Pare che le due cose non coincidano. Tant’è vero che il motto-guida dei secondi ribadisce «Europa, Europa!», mentre la parola d’ordine dei primi va martellando «centralità mediterranea».
Un editore cagliaritano dai magnanimi lombi barbaricini che si colloca su questa sorta di trentottesimo parallelo, proprio lungo la linea di demarcazione, ci propone una novità capace di riconciliare per un momento le due anime contrapposte: nel nome dell’invenzione creativa e del piacere del testo.
Si tratta di un’opera di carattere accademico, ma così singolare da potersi forse annoverare fra le più belle prose della letteratura di Sardegna. Per la verità, il saggio di Giovanni Lilliu «Un giallo del secolo XIX in Sardegna - Gli idoli sardo-fenici» era già apparso negli anni Settanta sulla rivista «Studi sardi». Viene ora affidato al vasto pubblico sotto il nuovo titolo «L’archeologo e i falsi bronzetti», assieme alla biografia dell’autore raccontata da Rossana Copez (un testo nel testo, sul quale non possiamo soffermarci in questa sede), il tutto per i tipi da AM&D Edizioni.
Il libro trae spunto tematico da un falso più antico e assai meno noto rispetto alle famigerate Carte d’Arborea: e cioè quello riguardante la «contraffazione e adulterazione» dei cosiddetti «idoli fenici» o «sardo-fenici».
Sardegna dunque patria elettiva (o predestinata) dei falsi storico-culturali? Siamo al giallo nel giallo. In un momento come l’attuale, in cui anche un maestro riconosciuto del genere, quale Andrea Camilleri, accusa la stanchezza e paga lo scotto di un successo forse obbligato, incassando le punture vendicative ancorché veritiere di Raboni, ecco che riprendiamo quota con un giallo autentico, anzi con un piccolo capolavoro della saggistica narrativa di carattere istruttorio; della più bell’acqua amarostica.
Un vero giallo sardo, anzi sardignolo, verderame: raccontato non come usano i giallisti di professione, «sine ira et studio», ma come fanno gli scrittori di razza, che scrivono con tutta la loro segreta passione e la loro indignazione controllata.
Giovanni Lilliu ricostruisce, tessera dopo tessera, la vicenda-puzzle dei falsi bronzetti che si moltiplicarono a centinaia tra il 1813 e il 1883, fabbricati in uno stile mostruoso e bizzarro, fino a quando non vennero espulsi dal Museo di Cagliari – dove pure avevano ricoperto per cinquant’anni il posto d’onore – in quanto «falsi e bugiardi». La serrata analisi investigativa obbedisce nelle intenzioni dell’autore ad uno scopo canonico: contribuire alla ricerca del colpevole, qui assunto nello scacchiere alto delle responsabilità storiche (moventi, mandanti, comparse), dove la posta in gioco o la vittima predestinata è poi la vera identità culturale di un popolo.
Il giallo dei nostri idoli comincia nel 1813. Il vettore occasionale e inconsapevole di tutta la vicenda fu un professore danese di scienze naturali in visita in Sardegna: Iacopo Keyser. Keyser, da buon turista settecentesco, recava con sé il suo album da disegno e schizzava monumenti (soprattutto nuraghi).
A Cagliari conobbe Ludovico Baille, il maggiore erudito e antiquario isolano del tempo. Nella collezione di antichitá di Baille, Keyser poté vedere e ritrarre sette interessanti «idoletti». Tornato in patria li mostrò all’amico letterato Friedrich Münter, vescovo di Séeland, appassionato di religioni orientali. Il quale a sua volta li propose ad un altro dotto, suo collega, vera autorità in materia di antichità fenicie: Federico Kreuzer.
Il «gioco era fatto»: nasceva così il «caso sardo», col crisma del «potere scientifico e letterario più prestigioso del momento». «I falsi sardi facevano l’ingresso ufficiale nella scienza e nella dottrina «sacra» del periodo». La cosa non sarebbe però finita in gloria. «Ecco infatti spuntare chi sa come e da dove nel Museo di Cagliari altri idoli fenici, quasi simili a quelli di Münter, per proporzioni, stile, fattura e contenuti. Figure laide, dall’aspetto demoniaco, allucinante: corna, teste mezze umane e mezze canine o di porco, mani che generano teste d’uomo rovesciate. Un delirio di forme, una metafisica surrealistica «ante litteram».
Anche Alberto Lamarmora cade nella rete, ma da par suo «ce la mette tutta in dottrina ed elucubrazioni “teologiche” per spiegare i misteriosi significati». L’insigne «amico della Sardegna», da buon subalpino, ipotizza perfino immaginarie componenti druidiche da affiancarsi ai motivi fenici. La Sardegna appare come sotterraneamente contesa tra gli spiriti del Nord e quelli del Sud. A riprova del destino della sua identità incerta o nascosta.
«Qualche anno dopo, Valery nei “Voyages en Corse” (1837) scriverà di 150 piccoli idoli fenici il cui numero aumenta ogni giorno, che sono la parte caratteristica, straordinaria del Museo». «Romanticismo su romanticismo», chiosa Giovanni Lilliu.
Ma chi furono i falsari? Qui le cose si fanno più complicate e alquanto torbide. E di vil conio: dove le rivalità personali si mescolano ai sensi di malintesi orgogli localistici. Ci si mettono di mezzo pure alcuni clerici vagantes con velleità estetico-commerciali, e direttori di museo smaniosi di far carriera: con adeguato corteggio di colpi di scena, colpi bassi, paternalismi e adulazioni.
Ma il nostro autore non ha dubbi in proposito: i poveri diavoli furono solo le comparse: «Era invece la gente-bene, la café-society, la borghesia ricca e colta che nascondeva i falsari dietro l’alone della dignità e del perbenismo». Il giallo si tinge di lotta di classe. Il libro assomma in sé complesse stratificazioni e chiavi di lettura: è un condensato di metafore interpretative e di spie ideologiche. Oltre che di lusinghe letterarie. La figura di Lamarmora vi campeggia sovrana e corrusca, come invasata da un demone. «Le diable qui vient de la mer». E nella prosa stilettante di Lilliu s’indovina un non sopito, antico antipiemontesimo.
Ma questo testo è anche una requisitoria interlineare contro il ceto di certi «mediatori» locali, interessati capofila di quel «demi-monde» di provinciali di talento che ritengono di esercitare funzioni egemoniche presso i conterranei in virtù del loro «salto geografico» sull’altra sponda del Tirreno. Tipica in tal senso la figura di Efisio Tocco, «uomo di sottogoverno» con «buone doti di arrampicatore sociale» (che pure ebbe il coraggio di attaccare pubblicamente il Lamarmora).
Intanto, l’intreccio davvero diabolico fra i falsi bronzetti e i successivi Falsi d’Arborea comincia a mettere a rumore l’opinione pubblica, attraverso la stampa: alimentando le difese d’ufficio e le inevitabili controaccuse.
Ma da questa querelle degna in fin dei conti di un «piccolo cabotaggio all’italiana» restava un significato profondo, come la ferita di un turbamento nella coscienza culturale dell’isola.
Ci spiegheremo meglio, ma prima dobbiamo richiamare un fatto notevole, che Lilliu evidenzia per onestà intellettuale ma non senza una dolorosa ripugnanza: «Di questa storia non edificante, l’ultimo episodio che corona la strana avventura fra il giallo e il poliziesco è costituito dal comportamento di Giovanni Spano». Egli avrebbe infatti incredibilmente ritardato la verità sulla vicenda, per motivi di interesse clientelare; anche dopo la sua nomina a regio commissario governativo per le antichità e i musei di tutta l’isola e a senatore del regno. «Sconcertante!» commenta Giovanni Lilliu. L’avreste mai creduta possibile una simile dissacrazione a distanza tra Sardi Patres? Spetterà ad Ettore Pais, dopo la morte dello Spano, rimettere le cose a posto. Sì, proprio all’austero sardo-piemontese Ettore Pais. Ironie della sorte?
La vicenda dei falsi sardi ricostruita da Giovanni Lilliu – una vicenda «con figure da sottosviluppo coloniale – esemplarizza l’atteggiamento tuttora prevalente nell’isola, dove la ricerca delle origini mitiche obbedisce ad una duplice dinamica motivazionale: la falsificazione nobilitante dall’interno. La cultura sarda sembra ancora prigioniera di tale spurio e contraddittorio «romanzo familiare» (a voler sviluppare fino alle estreme conseguenze un’ipotesi cara a Nereide Rudas). E non è detto che la realtà delle cose stia nel loro mezzo. Ebbene, tutta questa stratificazione di significati e interpretazioni è insieme implicata e dissimulata nel libro di Lilliu. Che perciò ci pare un magistrale esempio di letteratura ermeneutica, uno straordinario testo letterario.
Appartiene a un Lilliu razionalista ed illuminista nell’approccio e nel metodo critico. Un Lilliu che assomiglia quasi ad un pamphlettista del Settecento, teso a dimostrare un assunto ideologico individuato nella ricerca stessa della verità.
Non è il Lilliu più tradizionalmente noto: teorico di sardità, comunitarista e populista, demotico e anticlassico. Vi riconosci piuttosto l’agente di un illuminismo in questo caso dal retrogusto storicistico amaro, non dissimile da quello di Sciascia: che offre spesso il fianco ad un pensiero conservatore e antimoderno; e che però è implacabilmente moderno nello stile dell’indagine. Insomma, è il Lilliu che preferiamo: raffinatamente «ideologue», e scrittore di caratura europea.


torna su


Recensione al volume:
Siro Vannelli, Erbe selvatiche e commestibili della Sardegna

L’Unione Sarda
3 aprile 1999
Rubrica: Memorie Cagliaritane 

UN ATROCE E ANTIPATICO VIZIO E UNA INNOCENTE E POPOLARE VERDURA
INDIVIA E INVIDIA, PAROLE SIMILI DAL SIGNIFICATO OPPOSTO

di Antonio Romagnino

Invidia e indivia sono due parole quasi simili: le stesse sette lettere, le stesse sillabe. Anzi basta che a pronunciarle si cambi per distrazione uno qualsiasi dei loro elementi costitutivi, perché risuoni l’altra di significato tanto diverso. L’invidia è il più atroce dei vizi dell’uomo. Si legge negli occhi di chi ci avversa, nelle sue parole ambigue o appena accennate. È però più accanita nei silenzi, quando cova torbida nella coscienza annerita. Quello che è tuo, è più giusto che sia mio; togliti di là che mi ci metto io, mormora con voce sommessa, solo di rado te lo dice in faccia.
Ed è così universale che nel sardo è entrata la parola italiana, tale e quale, sia nel logudorese, che nel campidanese. Peste che fa stragi, come dice il proverbio toscano: Se l’invidia fosse febbre, tutto il mondo n’averebbe.
L’indivia è invece una innocente creatura della natura. È un’erba che cresce spontaneamente, ma è anche largamente coltivata. Ed è una delle migliaia di specie, tra cui Siro Vannelli, con la sua vasta esperienza, ha prescelto le ottanta che fanno il suo libro utile e dilettevole: Erbe selvatiche e commestibili della Sardegna, AM&D Cagliari.
Appena presentato ad un numeroso e festoso pubblico in quel circolo culturale e ricreativo, che è sorto nel cuore di Cagliari, le Janas di Gianni Ruggeri. Illustrazione del libro e dibattito hanno anche riacceso memorie, più o meno lontane. E, appunto, quella della indivia, che era nella dieta povera dei cagliaritani (ora riabilitata e, tutta o quasi, fatta rientrare nella dieta mediterranea), insieme con i legumi (fagioli, lenticchie e ceci), le patate, i ravanelli, la lattuga. Si confondeva con la cicoria (a cui s’avvicendava il nome scientifico di Cichorium endivia), si mangiava o cotta o cruda, si alternava come insalata a sa lattia o cupetta, la lattuga. Era saporita, ma amara, e quell’amaro sembrava farla anche più umile.
Eppure l’indivia aveva, allora, come un’origine regale. In quelle strette vie di Castello, il sole faceva ogni giorno fatica a calarsi sui balconi e sulle grigie facciate delle case. Anche quando il cielo era limpido, tra le cimase alte dei tetti sembrava che il sole non fosse sorto ancora. Ma quando uno scalpicìo e voci come squilli di tromba scoppiavano improvvisamente, era come se il sole fosse sceso giù a precipizio, ad illuminare e scaldare tutto. Erano le giovani donne campidanesi con in testa is cuberinas, ripiene di frutta e di erbe, gridate a gole spiegate. Una coroncina di panni ne attenuava il peso, e il passo a piedi scalzi procedeva sicuro e malioso. Di dietro i vetri delle finestre, bambini e adolescenti le guardavano stupiti, oltre il rosso delle arance e il giallo dei limoni. Specie la bellezza prepotente di Gilla cancellava l’amaro dell’indivia, che avrebbe venduto a chi si faceva intorno a lei, più che a qualunque altra. Poi riprendeva a salire verso le torri, in testa al corteo delle compagne pure gioiose, ed il sole sembrava essersi fatto, come è sempre a primavera. Solo is crabarissas, che come massaie rurali sfilavano nella via Roma, durante le manifestazioni fasciste, anch’esse a piedi scalzi, e mettendo a nudo le più forti caviglie del mondo, potevano pareggiarle. Erano tante belle di Cabras, e ricordavano quella famosa, uscita dal romanzo di Enrico Costa.
Dopo, a casa, l’indivia cotta o cruda, si faceva più dolce, più appetibile. Rientrava in quel rosario della miseria che è il regime alimentare di un’Italia lontana raccontata da Riccardo Bacchelli: «Ecco la sua dieta: rape, carote, bietole, lattuga, radicchio, indivia, cavoli e cavolini di Bruxelles». E, però, l’indivia è sempre meno amara dell’invidia.


torna su


Nuovi Orientamenti
18 aprile 1999 

ERBE SELVATICHE E COMMESTIBILI DELLA SARDEGNA

di Paolo Mereu

L’uomo, da quando esiste, ha utilizzato le erbe per nutrirsi, curarsi, imbellettarsi e per produrre aromi, fibre, tessuti, colori, profumi, utensili ed altro con cui ha sempre “migliorato” le attività e le proprie condizioni di vita. Esisteva, quindi, uno strettissimo e diretto rapporto tra l’uomo e le piante. L’evoluzione e l’organizzazione sempre più specializzata delle attività hanno poi diviso la società umana in produttori e consumatori di questi beni con un progressivo allontanamento dalla natura e dalla consapevolezza della bontà e dell’utilità di tante essenze vegetali.
Da diversi anni, però, è crescente la domanda di prodotti genuini, d’antichi aromi, sapori e profumi. Riprende ora quota la richiesta di “ambiente”. Di quel rapporto con la natura che si interruppe con l’arrivo nel mercato dei prodotti coltivati e di quelli si sintesi. Il lungo distacco ha facilitato l’oblio delle tradizioni e della cultura popolare che rendevano le erbe e il loro uso familiari a tutti.
Dove attingere ora? Peraltro, la raccolta o la coltivazione di talune erbe, con le nuove richieste del mercato, potrebbe creare ricchezza e posti di lavoro. Come fare?
Siro Vannelli, in “Erbe Selvatiche e Commestibili della Sardegna”, con passione e competenza scientifica, con esperienza umana e professionale “tosco-sarda”, straordinariamente sensibile e cosciente per l’entità e la qualità del vuoto culturale che si è creato negli ultimi decenni, motiva e guida il lettore alla riconquista della conoscenza e dell’uso culinario delle erbe. Non solo. Oltre la presentazione botanica l’opera e particolarmente ricca di notazioni di carattere storico. 
Colpisce, per esempio, la ricetta tratta da “Herbario Nuovo” di Castore Durante (Roma 1585) che propone un piatto strano: il “tronchetto di ferula alla brace”. Dopo la presentazione di 60 specie botaniche, una serie di suggerimenti pratici e un nutrito glossario sardo-latino incoraggiano il lettore a rivivere gradevolmente il mondo vegetale con un proficuo proseguimento delle ricerche.
È auspicabile una presentazione dell’opera in occasione della “Mostra delle Erbe” annualmente allestita ad Ussaramanna (7-15 maggio) dove potranno anche essere riconosciute dal vivo e degustate le specie vegetali descritte. 
Il volume, (AM&D Edizioni di Cagliari) è in vendita presso le librerie al prezzo di £ 28000.


torna su


Erboristeria domani
maggio 1999

Sardegna - Aglio - Fiori di Bach

In origine, esisteva uno strettissimo e diretto rapporto tra l’uomo e le piante. L’evoluzione e l’organizzazione sempre più specializzata delle attività ha poi diviso la società umana in produttori e consumatori di questi beni, con un progressivo allontanamento dalla natura e dalla consapevolezza della bontà e dell’utilità di tante essenze vegetali.
Dove attingere ora? Siro Vannelli, nel suo Erbe selvatiche e Commestibili della Sardegna, con passione e competenza scientifica, con esperienza umana e professionale ‘tosco-sarda’, motiva e guida il lettore alla riconquista della conoscenza e dell’uso culinario delle erbe. sessanta specie botaniche della Sardegna vengono presentate per la prima volta in questo libro con i loro nomi in sardo, in italiano, in inglese, in francese e con le denominazioni scientifiche, seguono le descrizioni di fiori e frutti, degli habitat di appartenenza e gli usi gastronomici delle erbe selvatiche, dai più comuni ai più raffinati. L’opera è particolarmente ricca di notazioni di carattere storico. Colpisce, per esempio, la ricetta tratta dall’Herbario Nuovo di Castore Durante (Roma, 1585) che propone un piatto strano, il “tronchetto di ferula alla brace”. Una serie di suggerimenti pratici e un nutrito glossario sardo-latino incoraggiano il lettore a un proficuo proseguimento delle ricerche.


torna su


Recensione al volume:
Bachisio Porru, Diario di un sindaco

La NuovaSardegna
30 dicembre 1999
Rubrica: Società & Cultura 

SINDACI NUOVI “BALENTES”
CONTROLLO DEL TERRITORIO ED EMERGENZA CRIMINALI

di Giangiacomo Ortu

Sindaco di Olzai, leader del movimento dei piccoli Comuni, Bachisio Porru propone in volume articoli ed interventi con i quali ha cercato di creare un movimento d’opinione sui problemi del territorio. E, davvero, il suo «Diario di un sindaco» (AM&D Edizioni, lire 28.000) testimonia dell’incontro e fusione, in un gesto protratto di generosità civile, dell’impegno a fare e dell’impegno a capire in un amministratore che è anche un uomo di cultura.
La cifra del libro è, infatti, quella di dipanare un filo intelligente di riflessioni sui problemi di un «luogo». Olzai, che si sviluppa a lettura e decifrazione dell’intero sistema territoriale dell’isola. Sullo sfondo la Sardegna del dopo Rinascita, di un’esperienza di pianificazione approdata ad una crescita squilibrata dei territori: un’eredità nella quale si radica ancora la gran parte dei problemi che i sindaci di molti Comuni piccoli o abbandonati devono oggi affrontare. All’orizzonte, ma improbabile, un’inversione di tendenza: la realizzazione – come scrive Porru – di politiche «protese alla diffusione omogenea dell’effetto urbano sul territorio, che garantiscono, al massimo livello istituzionale, un governo delle risorse tale da costruire una fisionomia del territorio policentrica».
Occorrerebbero, in verità, molta intelligenza progettuale e molta fermezza di giusti propositi per evitare che le risorse non fossero ancora una volta attratte dai centri più forti o da interessi settoriali (lo stesso Porru fa l’esempio illuminante del «polo tessile»). Certo, da qualche anno c’è in Sardegna un fermento di progetti sul territorio, sui «luoghi»; ma è rimasto senza disegno unitario, mentre il riequilibrio territoriale implica una visione d’assieme, una sintesi politica. Ma chi oggi può realizzarla? «Diario di un sindaco», nella sua sostanza, rappresenta una critica serrata e impietosa proprio della classe politica regionale che quando non è disonesta, è troppo spesso incapace e confusionaria. Ferocemente, Porru l’assimila a quei personaggi di Musil persi a discutere di una fumosa e sterile Azione Parallela, metafora della Vienna del tramonto asburgico, vera Cacàina anche per i suoi contemporanei.
Qualche tempo fa un amico osservava che la Sardegna ha oggi degli amministratori locali spesso valenti e coraggiosi (non saranno loro i nuovi «balentes»?), certo migliori che in passato, mentre l’attuale élite regionale è persino inferiore a quel notabilitato e patronato democristiano che ha fatto dell’istituto automobilistico un apparato di potere autoreferenziale e distante dai cittadini.
Ma «Diario di un sindaco» aggiunge anche un’altra verità: e cioè che la solitudine dell’amministratore locale non ha colore politico, ed è soprattutto l’effetto di una vacanza dello Stato, del suo largo e crescente disimpegno. Il rafforzamento del profilo amministrativo del sindaco, e in genere dell’ente locale, è andato di pari passo con quella smobilitazione dello stato sociale e quella ristrutturazione dei servizi pubblici che hanno prodotto da un lato un assottigliamento relativo delle disponibilità finanziarie delle amministrazioni e dall’altro la rarefazione dei servizi d’interesse pubblico (scuole, uffici postali, preture, sportelli bancari, ecc.). E ciò senza che l’ente locale sia abilitato a incidere su decisioni che possono segnare il destino. Il potere e l’autonomia delle amministrazioni sono insomma cresciute in una sorta di vuoto istituzionale, con un riflesso soggettivo di isolamento e di abbandono in chi deve far fronte non solo a pressioni illegittime, ma più spesso a domande legittime che restano egualmente deluse.
La situazione è più insostenibile, sotto il profilo morale e psicologico, nei territori nei quali la mancanza di gruppi formali e di organizzazioni e di istituzioni in grado di mediare e incarnare aspettative e domande sociali (ne ha scritto qualche tempo fa, su questa stessa pagina, Benedetto Meloni) fa sì che l’amministratore locale divenga l’unico referente-interlocutore dal quale pretendere una risposta a qualunque problema. In questi territori, il rapporto con l’esponente del governo locale tende perciò a personalizzarsi e drammatizzarsi. Ma, più in generale, si verifica anche che gli interessi individuali e di gruppo fanno sempre più aggio su quelli collettivi, producendo l’increnamento di quel senso comunitario che riusciva un tempo, in qualche modo, a contemperare le ragioni private con quelle comuni. E a questo punto può anche aprirsi il discorso su quella «violenza diffusa» di cui gli attentati contro gli amministratori (sui quali c’è uno studio recente di Marco Zurru, allievo di Gianfranco Bottazzi) e i sequestri di persona sono soltanto le emergenze più pubblicizzate, e certo più incidenti sotto il profilo etico e civile. Il nuovo sequestro «breve», escogitato dall’inesauribile inventiva criminale per aggirare l’ostacolo della legge sul blocco dei beni, è in effetti una contaminazione tra il tipo più tradizionale di sequestro e la pratica metropolitana dell’assalto allo sportello (bancario o altro). Ci sembra che questo dovrebbe suggerire l’abbandono definitivo del vezzo intellettuale a conferire al sequestro di persona i caratteri (e quasi l’alone) della tradizionalità (a radice sociale e persino «etnica»). In realtà, nelle sue diverse comparse storiche, da fine Ottocento, il sequestro è sempre stato un fenomeno moderno e «fungibile», nel senso che, per quanto possa acquisire specifici connotati ambientali, resta tuttavia una forma non locale di criminalità.
Sotto questo profilo, in quanto manifestazione moderna di violenza, il sequestro di persona è forse meno terribile di quell’altra forma di violenza, questa sì tradizionale, legata agli assetti strutturali dell’economia rurale isolana, che si manifesta nella competizione extra-legale (o pre-legale) per il controllo della terra. Sono le «chiudende del Duemila» di cui parla Porru, in riferimento all’ipoteca che alcune famiglie o «ereus» fanno gravare sulle terre «comuni» (a titolarità demaniale o comunale), e che in alcuni paesi delle Barbagie e dell’Ogliastra è stata un impedimento sostanziale non solo alla costituzione dei parchi, ma allo stesso governo del territorio da parte dell’ente locale. In Sardegna per la terra si è sempre ucciso molto, e si uccide ancora, ed è davvero sorprendente la superficialità con cui certi portavoce dell’ambientalismo ufficiale attribuiscano proprio ai sindaci la responsabilità di frapporre ostacoli alla costituzione dei parchi. Abbiamo già scritto – e ci sembra che Bachisio Porru concordi – che lo Stato non può risolvere questo problema «tagliandone le radici e i rami», e cioè con un intervento meramente centralistico ed imperativo. Il pericolo è che l’impasse a cui si è così approdati giovi a quelle numerose cordate di politici e di speculatori già pronte ad insinuarsi nel malessere delle popolazioni per spezzare via ogni ragione ambientalista e cementificare allegramente le coste.


torna su


Il Provinciale oggi
1 gennaio 2000
Rubrica: Cultura Costume

LA CRISI DEI PICCOLI COMUNI DELL’INTERNO, DELLA VERA SARDEGNA 
IN UN LIBRO DI BACHISIO PORRU

Nato a Olzai nel 1951, è Sindaco dello stesso Comune dal 1994. Docente di storia e filosofia, è fondatore, assieme ad altri Sindaci, della Consulta Nazionale e Regionale dei Piccoli Comuni. Collabora con quotidiani e riviste.

È un grido d’allarme che racconta storie vere, storie di tutti i giorni fatte di piccoli e grandi problemi che si sviluppano in ambienti difficili, dove uno Stato patrigno non è riuscito a risolvere problemi atavici e anzi ha fatto crescere la diffidenza verso tutte le istituzioni.
Le pagine di Porru lasciano traboccare il senso di sconforto di un Sindaco, come tanti altri, mandato allo sbaraglio in prima linea a governare la miseria e il malessere sociale dei paesi dell’interno che, sempre più deprivati dei servizi fondamentali, inducono i giovani ad abbandonarli per inseguire il miraggio di un’altra Sardegna, quella delle città sempre più affollate e dei centri costieri, nuovo Eldorado del turismo isolano. Porru analizza punto per punto i problemi, le origini del malessere e della violenza ma non si limita ad una mera elencazione dei mali che avvelenano i piccoli Comuni e men che meno si abbandona ad inutili piagnistei. Il Sindaco, dopo una illuminata diagnosi, propone una terapia condivisibile fino all’ovvietà pur nella consapevolezza della difficoltà di strappare l’antidoto dalle mani dei poteri forti centrali. 
“L’allarme sulla gravissima crisi demografica che sconvolge in profondità l’equilibrio sociale, economico e culturale della Sardegna – scrive Porru – è stato lanciato con grande forza ed in varie occasioni dagli amministratori dei centri dell’interno che subiscono più di tutti gli effetti devastanti di quel fenomeno. Un allarme che è stato positivamente recepito dalla stampa e dall’opinione pubblica. Tanto che le tematiche dello spopolamento sono diventate oggetto di una riflessione politica e culturale ad ampio spettro. Sembra tuttavia che, come spesso avviene, basti consumare la notizia per quietare gli animi. Poi progressivamente arriva la fase dell’oblio, della rimozione, prima ancora che qualcosa si sia fatto di concreto per porre rimedio al male. Viviamo nella società della comunicazione globale, il fatto è sostituito dalla parola. Siamo inondati da un mare verboso spesso sussunto senza adeguato spirito critico. Al dominio del fatto sembra sostituirsi il dominio della parola. Che il reale prosegua il suo corso… ai contemporanei sembra bastare l’esorcismo della parola. Come spiegare altrimenti che dopo tanta convergenza di analisi e di intenti non vi sia un concreto atto di governo, ad alcun livello, che persegua intenzionalmente una concreta inversione di tendenza? Che si ponga l’obiettivo concreto di contenere prima, e poi di invertire quella tendenza demografica sempre più impetuosa nello svuotare l’interno per popolare in maniera sempre più caotica l’hinterland cagliaritano, le coste ed alcuni altri centri amministrativi e produttivi?”
Un grosso punto interrogativo, cui lo stesso professor Porru tenta di rispondere nel seguito delle pagine. Il libro del Sindaco conclude con dieci “parabole”, brevi racconti, autentiche pennellate di colore locale, che portano il lettore a riflettere con quale patrimonio di cultura e tradizioni popolari si stia rischiando di perdere per sempre i contatti. Il libro si legge d’un fiato, anche grazie al linguaggio facile e scorrevole, come un racconto, seppure modularizzato in una sorta di articoli giornalistici ma, vista la grande quantità di dati di cui è infarcito, si configura anche come testo da consultazione.
Il libro è stato presentato a Sanluri venerdì dieci dicembre scorso per iniziativa del sindaco di Furtei Ignazio Congiu, che fa parte anche del coordinamento dei piccoli Comuni. Alla presentazione hanno dato il loro contributo, oltre allo stesso Congiu, Gian Giacomo Ortu dell’Università di Cagliari e i giornalisti Ottavio Olita e Gerardo Addari.


torna su


Recensione al volume:
Enrica Delitala, Novelline popolari sarde dell'Ottocento

Il Messaggero sardo
7 gennaio 2000
Rubrica: Cultura 

MAGICHE FAVOLE SARDE

LE FOLE: COMUNICAZIONE ORALE E RACCONTO FANTASTICO.
ENRICA DELITALA PUBBLICA LE NOVELLE DELL’ARCHIVIO COMPARETTI. 
UN IMPONENTE LAVORO DI RACCOLTA E TRASCRIZIONE DI NOVELLE DELL’800

di Eugenia Da Bove

Sono state recentemente pubblicate dalla AM&D Edizioni in collaborazione con l’Isre (Istituto Superiore Regionale Etnografico) le Novelline Popolari Sarde dell’Ottocento, una raccolta di fiabe della tradizione orale sarda.
Frutto di un lungo lavoro di ricerca di Enrica Delitala, docente di Storia delle Tradizioni popolari presso l’Università di Cagliari, le Novelline furono raccolte fra il 1878 e il 1881, per conto dello studioso Domenico Comparetti, da un suo allievo di origini sarde, Ettore Pais. Questi, laureatosi in Lettere a Firenze nel 1878, giunse subito dopo a Sassari dove per tre anni insegnò al Liceo-Ginnasio Azuni. All’epoca giovanissimo, (era nato nel 1856 a Borgo San Dalmazzo), condusse, durante la sua permanenza a Sassari, un lavoro di raccolta e trascrizione di fiabe e racconti che il Comparetti intendeva inserire nel più ampio progetto di una raccolta che rappresentasse la variegata realtà fiabistica italiana. Tale raccolta diede poi luogo nel 1875 a un’opera, le Novelline popolari italiane, una selezione della ricerca condotta in varie regioni d’Italia.
Nella sua ricerca il Pais si avvale di una rete di “aiutanti in campo” costituita prevalentemente da professori, maestri e studenti che – in vari paesi della Sardegna Centro Settentrionale come Sorso, Codrongianus, Villanova Monteleone, Bono, Ghilarza – raccolsero e trascrissero in lingua originale 105 fiabe. Esse costituiscono perciò, oltre che un affascinante esempio di affabulazione dell’immaginario favolistico e mitologico sardo, un importante documento linguistico.
Lo stesso Italo Calvino, nell’introduzione alle sue Fiabe Italiane, a proposito della Sardegna sottolineava come il materiale sardo del Fondo Comparetti rappresentasse una fondamentale raccolta che pubblicata avrebbe colmato una lacuna nella scarna testimonianza della tradizione orale sarda. E riferendosi alle poche raccolte esistenti di area sarda notava:
«La Sardegna non ha grandi raccolte; ma il modo di raccontare triste, magro, senza comunicativa, e pur sempre con una lama d’ironia, mi pare caratteristico dell’isola». Ora se un tratto emerge dalla raccolta curata da Enrica Delitala è invece quello della grande vivacità del racconto che, soprattutto nella versione originale (ogni fiaba ha poi una traduzione in italiano curata dalla stessa Delitala) riflette la ricchezza della lingua parlata e di un mondo carico di immagini e suggestioni. Inoltre come nota Delitala nella sua introduzione alle Novelline:
«Situazioni, forme linguistiche, incisi, strutturazione del discorso, formule di apertura e chiusura, costituiscono altrettante spie del contesto e dell’ambiente locale, di un mondo in cui la comunicazione orale ed il racconto magico erano parte della quotidianità».
I due volumi delle Novelline non sono solo un importante documento per gli studiosi e gli appassionati della cultura popolare sarda, ma un occasione per tutti, bambini e adulti, di immergersi in un mondo affascinante in cui magia, fantasia e realtà si fondono per insegnare e divertire ancora oggi il lettore, come un tempo succedeva a grandi e bambini riuniti intorno al focolare o seduti fuori al fresco delle notti d’estate ad ascoltare le fole.


torna su


SENZA TITOLO

di Ignazio Lecca

“Tutti gli individui dovranno fare appello alla loro diversità regionale, alla loro cultura specifica e alle loro tradizioni al fine di aumentare la loro competitività e di trovare il modo di uscire dall’informazione globale”. 
Cade a proposito la raccomandazione di Carlo Rubbia, mentre compaiono nelle vetrine e sugli scaffali delle librerie i due volumi curati da Enrica Delitala delle Novelline Popolari sarde dell’Ottocento per le Edizioni AM&D ed Isre. Si tratta dell’edizione integrale dei manoscritti originali, provenienti in gran parte dalla Sardegna Centro-Settentrionale e raccolti a cura di Ettore Pais, conservati nel fondo Comparetti del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma. L’uscita delle Novelline ci aiuta a dire che una popolazione può essere compresa solo guardando alla storia delle sue idee, cercando di capire le radici di atteggiamenti tuttora diffusi e comprenderli nelle loro conseguenze culturali morali e politiche profonde.
Non è vero, dunque, che siamo eredi indegni del nostro passato. Nessuna reazione è mai eccessiva su un piano dei risvegli. In questo, infatti, non scherziamo. Basta considerare la mole dei due volumi che raccolgono le novelline.
Rispetto a queste osservazioni il ricco materiale che la Delitala ha tratto dal silenzio e dalla polvere degli archivi romani e restituisce alla nostra lettura, costituisce un punto fermo della letteratura popolare sarda, che ha avuto il pregio e il merito di salvare la lingua. Materiale che faceva parte in qualche modo del mito. Il mito resiste, ed è giusto che sia così, perché si tratta di un genere di cui abbiamo ancora bisogno, basta renderlo più realistico, più plausibile. Di certo ci aiuterà il sottile nesso tra il conoscere e il ricostruire la natura secondo nuove regole.
Un aspetto importante di queste novelle è quello di presentarci l’interagire di “sapere” e “potere” nel momento in cui il narratore popolare, spesso sconosciuto e magari analfabeta, si impegna nello sviluppo del racconto come a una interpretazione della natura. “Sapere” e il mezzo per “poter” raccontare, per “poter fare”. È un rapporto che si rivela chiaramente a racconto concluso. Ogni narratore conosce i limiti della propria capacità di affabulazione e si muove entro quei confini con abilità e naturalezza, senza forzarne gli equilibri. “Sapere” e “potere” assolvono, alla fine, una funzione unitaria. Conclusa la narrazione il narratore abbandona le vesti del mito e rientra nella sua attività reale, senza sforzo di adattamento.
Qual’è stato il senso di questa operazione? La riscoperta del meccanismo del lavoro del narratore che imita e innova, non rifiuta l’antico essendo anche lui antico, né il nuovo vivendo nel nuovo, ma consulta in sé qualcosa di eternamente attuale.
Le favole sono impasti convenzionali di storia e mito che venivano raccontate ad ascoltatori in qualche modo inseriti o partecipi dei luoghi del mito, le quali a loro volta raccontavano ad altri, e questi ad altri ancora. Si attivava una sorta di circuito narrativo (o distributivo), funzionale allo sviluppo storico del raccontare, anche se il racconto iniziale subiva, nei passaggi ripetuti, influenze, apporti nuovi, varianti, fino a diventare un “altro” racconto. Nella favola ciò che conta e la risposta umana, emozionale e intellettiva, tenendo conto che le emozioni variano e così le sensibilità culturali. Infine è sempre il tempo a vagliare e a suggerire la misura di nuovi approcci e nuovi ascolti! Mi sembra che questo vasto repertorio che ci è stato riconsegnato vivo e palpitante, abbia il merito di proporre in un insieme completo e argomentato l’intero “corpo delle novelline sarde” presenti nel fondo Comparetti. La struttura dei due volumi consente di muoversi al loro interno secondo un percorso agile, di saltare in avanti e tornare indietro, di creare un proprio autonomo percorso di lettura, sempre guidati dalla dotta introduzione e dalle note della Delitala, tanto più che, accanto ai testi originali, è sempre presente l’ottima traduzione italiana ad opera della stessa Delitala.
La pubblicazione di questo ingente materiale impone altre considerazioni. Quello che troppi curiali italofoni, sbrigativamente, tendono a considerare come materiale di periferia rispetto alla cultura egemone “anglomane”, ai tempi della “raccolta” dei testi era tutt’altra cosa: formava il corpo della cultura di una vasta area dell’isola, ma che potrebbe valere per tutta l’isola. Per quel che ci riguarda da vicino, costituiva l’essenza stessa della cultura dei sardi, nella lingua allora comunemente parlata, il sardo appunto lingua eminentemente orale. Quello che appare come un mondo assolutamente immobile (rispetto alla crescita delle altre regioni, o nazioni), invisibile è, talora, invivibile, un mondo di pura disgregazione sociale, oggi ci sorprende, ci stupisce e ci meraviglia. Quello era il nostro mondo, ben visibile e conosciuto. Ora che queste novelline ci sono state restituite, l’avvicinarci dell’anno 2000 ci fa sorridere per nuove paure Millenariste. Allora erano altre le paure. Mille e non più mille, finisce il mondo! Quale mondo? Qual’è la novelletta che manca nel compendio? La paura che blocca il fabbro mentre forgia il cancello perché il cancello non servirà più? La paura che immobilizza il panettiere che impasta la farina per farne pane, perché domani non servirà più mangiare? O la paura che toglie il latte alle mucche perché nessun latte servirà più? Insomma tutto il mondo che si ferma. Piuttosto, un mondo che non esiste più, perché l’allevatore non munge le vacche, provvede una mungitrice meccanica. Il pane viene impastato meccanicamente e basta un unico forno industriale a sfamare una città. Non occorrono più cancelli, bastano sbarramenti elettronici, cellule fotoelettriche, computer gestionali. Un mondo meccanico e senza cuore.
La lettura delle novelline, per fortuna, ci aiuta a vivere un momento di rinnovata attenzione al mondo del lattoniere, del panettiere, dell’allevatore, alla sua realtà più aderente ai bisogni dell’uomo, alle sue mancanze e ai suoi slanci, nei paesi e nelle città dove tutti si conoscevano e sapevano tutto di ciascuno.
Si può onestamente affermare che Enrica Delitala non ha messo in atto alcuna ricetta straordinaria. Straordinaria è la costanza del suo lavoro. Il materiale pubblicato esisteva dimenticato nei depositi del Museo delle Tradizioni popolari di Roma. Dimenticato nella memoria della gente comune ma non in quella degli studiosi vigilanti. L’operazione significativa è stata quella di riportare alla luce non una o dieci novelline e fiabe dei miti, ma tutto un corpus di narrativa popolare, raccolta dalla viva voce di uomini e donne che convivevano con quel materiale, era l’essenza della loro cultura, delle loro modalità ed esigenze di vita. Era, in sostanza, il frutto di una creatività quasi ancestrale, perpetuata nei secoli da una generazione all’altra di uomini e donne, bambini e vecchi che sentivano che quelle storie erano congeniali al loro sistema di vita, rappresentavano in qualche modo la loro struttura culturale. Struttura e non sovrastruttura. Ed è in quella struttura che trovava supporto la creatività dei narratori popolari. Tutto ciò Enrica Delitala lo sapeva, essendo il pane della propria disciplina di studiosa e di ricercatrice attenta e paziente. Ed è andata a scavarne i frutti, da archeologa delle parole. La Delitala sa quanto sia fondamentale intuire lo spirito del tempo, capirlo a fondo, fuori ed oltre certe mode culturali, passeggere e capricciose quanto un soffio di vento. Guai a is araxis, che hanno devastato il nostro tempo. La nostra studiosa sa che occorre una considerazione retrospettiva, uno sguardo critico all’antefatto, per dare un inquadramento complessivo e non unilaterale al corpus di novelle e fiabe. Questo è tanto più fondamentale in un secolo di grossolana divinizzazione della scienza, in cui la scienza pare avere preso in mano le redini della società. Che la scienza ci abbia traditi? No, la scienza non ci ha traditi, ma lo scientismo sì.
Non tutti i problemi dell’uomo son misurabili in senso matematico. Ora assistiamo a una sostanziale modifica dei modelli di crescita, di maturazione: l’infanzia, l’adolescenza, la maternità, il lavoro, la carriera e così via stanno cambiando configurazione, scansione temporale, valore relativo alla vita. Certamente si tratta di un confronto impossibile tra l’ambiente umano, civile, economico e culturale odierno e quello delle novelle popolari dell’Ottocento. Il dialogo tra le generazioni, che è sempre stato difficile, sta diventando ancor più difficoltoso, la vita è piena di incertezze, di logiche non dominabili, di fughe in avanti. Alla fine del secondo millennio cristiano il mito del progresso e la cieca fiducia dell’illimitata perfettibilità umana possono condurre, come di fatto hanno condotto, sull’orlo del disastro morale e spirituale.
Allora il lavoro di Enrica Delitala, confrontato alle aspettative del nostro tempo, non è servito solo a riesumare un “corpo scomparso” è servito, serve, a conoscere problemi e situazioni umane che si rivelano sotto i paludamenti della fiaba della novellina, ma sono problemi reali, situazioni umana comprovabili: l’esigenza di giustizia, il riconoscimento effettivo, la morte nuda e cruda come era allora; non la morte asettica mascherata e igienicamente spogliata di umanità qual’è oggi.
Campavano male gli uomini di quel tempo: pane guadagnato con il biblico “sudore della fronte”, malattie, miseria, pestilenze, superstizioni, credenze popolari, sudditanze varie. In questo contesto germogliarono le novelle.
Diverso il mondo dell’uomo europeo di oggi, affrancato dalla miseria bruttale circondato di beni e oggetti che gli permettono di comunicare, spostarsi, nutrirsi, svagarsi. Per l’uomo di oggi un valore assoluto è la comunicazione. Può avere o non avere un sentimento religioso, un partito o un’idea politica, essere monogamo o poligamo, può avere o no amore di patria, ma in ogni modo cerca di aumentare la comprensione di ciò che lo circonda e su queste conoscenze costruire attrezzi, macchine, in una parola sostenere il progresso tecnologico. 
Ci affacciamo al terzo millennio con questo capitale di storia, che ci propone il problema del recupero del significato “umano” della vita. Noi sardi non andiamo a mani vuote incontro allo spirito del tempo, conosciamo l’esigenza di recuperare il significato umano della scienza, perché queste novelline hanno il pregio di essere state pensate e raccontate al servizio dell’uomo e delle sue fondamentali esigenze di senso.


torna su


Recensione al volume:
Martino Contu, I martiri sardi delle Fosse Ardeatine. I militari

Nuovo Cammino
n. 2, 15 gennaio 2000

I MARTIRI SARDI DELLE FOSSE ARDEATINE
UN LIBRO-TESTIMONIANZA DI UN GIOVANE STORICO DI VILLACIDRO

di Italo Cuccu

L’autore Martino Contu è un giovanissimo docente e giornalista di Villacidro. nonostante la giovane età è già autore di numerosi lavori di ricerca storica, con preferenza spiccata per il periodo concernente la seconda guerra mondiale.
I fatti e le persone presenti nel libro. Il 23 marzo 1944 a Roma, in via Rasella, un gruppo di militari tedeschi del terzo battaglione SS ‘Bozen”, perse la vita in seguito a un attentato ad opera dei partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica.
Il giorno seguente, 24 marzo, si consumò la rappresaglia, con il martirio di 335 italiani, fucilati nelle fosse Ardeatine, sulla via Appia.
Il Maggiore Kappler e il Capitano Erik Priebke delle SS misero in atto “una delle vicende più disumane di tutta la nostra resistenza”: applicarono una terribile disposizione del Comando tedesco, secondo la quale per ogni soldato tedesco ucciso dovevano morire 10 italiani e in questo caso il conto fu fatto in eccesso!
I Martiri sardi in questo eccidio furono ben 9, cioè 4 civili (Salvatore Canalis, Gavino Luna, Giuseppe Medas e Antonio Ignazio Piras), il rivoluzionario Sisinnio Mocci di Villacidro e appunto i 4 militari, sui quali spazia il libro-testimonianza di Martino Contu.
A distanza di 55 anni, l’autore ricostruisce, con dovizia di particolari e in modo esemplare, “le biografie, prima in Sardegna e poi nei fronti di guerra, dei 4 militari sardi”: Pasqualino Cocco (Sedilo, 21.01.1920), Sergente pilota dell’aeronautica; Agostino Napoleone (Carloforte, 14.09.1918), sottotenente di vascello della Marina; Candido Manca (Dolianova, 31.01.1907) e Gerardo Sergi (Portoscuso, 25.03.1917), Brigadiere dei Carabinieri.
Nello spazio di 380 pagine, sono documentati la loro tragica fine e “il ruolo di questi militari nelle file della clandestinità e della Resistenza – in un contesto complessivo degli avvenimenti storici concomitanti –, attraverso la consultazione degli Archivi pubblici e la generosità dei parenti, che hanno messo a disposizione le carte familiari e gli episodi inediti”.
Perché furono uccisi, proprio loro? Unicamente perché si trovarono allora reclusi nel Carcere di via Tasso o di Regina Coeli: “le porte delle celle si aprirono per essere condotti alla Fosse, le mani legate dietro la schiena, spintonati su malandati carrozzoni, fino all’uccisione, insieme ad altri sventurati, tutti incolpevoli dell’attentato di via Rasella, che aveva fatto esplodere la ferocia nazista”.
Riflessioni finali. Martino Contu presenta una ricostruzione di avvenimenti tragici, ancora recenti, mentre è in corso “una stagione caratterizzata da reviviscenza del dibattito e del confronto storiografico, ma anche da conflitti tra la galassia degli studiosi italiani che riflettono i contrasti dell’attualità politica”.
Nel trattare questa materia, indubbiamente coinvolgente, il nostro Autore – pur così giovane – dimostra maturità e di essere uno storico rigoroso, accurato nella ricerca della documentazione e nella proposta dei riferimenti bibliografici.
Al libro è acclusa una significativa testimonianza fotografica e di documenti, spesso inediti.


torna su


L’Unione Sarda
18 febbraio 2000
Rubrica: Cultura 

IN UN LIBRO EDITO DALLA AM&D, MARTINO CONTU RICOSTRUISCE LA STORIA DEI QUATTRO MILITARI FUCILATI DALLE SS DOPO L’AGGUATO DEI PARTIGIANI IN VIA RASELLA
TUTTI I GIOVANI ASSASSINATI FACEVANO PARTE DEI GRUPPI IMPEGNATI NELLA RESISTENZA CONTRO IL NAZISMO. MA, COME GLI ALTRI, VENNERO SCELTI A CASO

di Carlo Figari

Nel clima di revisionismo che coinvolge storici e politici si è tentato di giustificare la strage di 335 vittime delle Fosse Ardeatine come la sola e diretta e conseguenza dell’attacco militare di via Rasella. Il 23 marzo 1944 i partigiani dei gruppi di azione patriottica fecero saltare in aria un camion con 33 soldati del 3° battaglione delle SS “Bozen”. In realtà nella Roma occupata dai tedeschi i fatti di via Rasella furono il pretesto dell’eccidio che seguì immediatamente dopo, nel buio delle Cave Ardeatine. Non si trattò quindi, dell’esecuzione dei diretti responsabili dell’azione partigiana, ma di una strage premeditata contro vittime innocenti ed inermi. Una carneficina di uomini, giovani e vecchi, molti dei quali militari, che erano detenuti nelle carceri di Regina Coeli e di via Tasso.
Settantacinque erano ebrei e diversi erano i cittadini comuni estranei alla Resistenza, arrestati durante il rastrellamento seguito all’attentato. Tra questi anche alcuni sardi. Le storie di gran parte delle vittime delle Fosse Ardeatine aspettano ancora di essere scritte. «Perché è solo attraverso la ricostruzione del percorso biografico di ciascuno di loro, che è possibile far luce sui tanti punti oscuri e poco noti della Resistenza romana»: è questa la tesi che un giovane studioso cagliaritano, Martino Contu, porta avanti nel suo libro I Martiri sardi delle Fosse Ardeatine (AM&D Edizioni, L. 28.000). Appena pubblicato ha subito suscitato interesse e anche un acceso dibattito attorno ad una pagina ancora discussa della storia recente. Chiuso definitivamente il caso Erik Priebke (con la condanna dell’anziano ex ufficiale delle SS all’ergastolo) e archiviata anche l’inchiesta contro i partigiani attentatori, non resta che l’esame storico di quel tragico evento.
Martino Contu aveva già affrontato l’argomento con un libro su Sisinnio Mocci, il combattente di Villacidro trucidato anch’egli alle Fosse Ardeatine. Mocci fu un autentico personaggio. Nel 1927 emigrò in Sudamerica, poi andò a vivere a Parigi e quindi a Mosca dove rimase sino al 1937. Era un militante comunista e nel 1939 combatté volontario nella guerra di Spagna con la brigata internazionale “Garibaldi”. Rientrato in Italia finì al confinio di Ventotene.
Nell’estate del 1943 lo ritroviamo a Roma nelle file della Resistenza nel ruolo di capo di una banda partigiana. Si nascondeva nella villa di Luchino Visconti fingendosi maggiordomo. Lo scoprirono e imprigionarono nella famigerata pensione Jaccarino dove fu a lungo torturato, ma non rivelò mai i nomi dei suoi compagni. Consegnato alle SS di via Tasso, il 24 marzo 1944 finì alle Fosse Ardeatine.
Ma il libro di Contu non si ferma sulla storia di Sisinnio Mocci, ormai nota, quanto su quelle inedite di quattro militari sardi che hanno subito la stessa tragica sorte: Pasqualino Cocco, sedilese, sergente pilota dell’Aeronautica; Agostino Napoleone, carlofortino, sottotenente di vascello della Marina; i due brigadieri dei carabinieri, Candido Manca di Dolianova, e Gerardo Sergi di Portoscuso.
Il corpo di Pasquale Cocco venne rinvenuto in posizione contorta sull’asse e con i polsi legati. Aveva il cranio e il torace frantumati. La salma venne identificata da Alessandra Floriani, una giovane che l’avviatore aveva cominciato a frequentare a Roma, e dall’ultima lettera scritta a lapis che gli fu ritrovata in tasca.
Subito dopo l’armistizio Cocco era stato costretto ad arruolarsi nel battaglione repubblichino “Buccari”, ma alla prima occasione tagliò la corda dandosi alla macchia. Successivamente si mise in contatto con il personale dell’Ufficio assistenza sardi che il neo sottosegretario alla presidenza del Consiglio della neonata Repubblica di Salò, il sardo Francesco Barracu, aveva fatto aprire nella sede del collegio militare per raccogliere (con le buone o con le cattive) tutti i sardi sbandati.
Nella trappola cadde anche Cocco: quando giunse l’ordine di partire per il Nord il giovane si tagliò le vene. Per quel gesto fu consegnato ai tedeschi che lo rinchiusero in via Tasso. Si ritrovò in cella con un dirigente democristiano, l’avvocato sardo Giorgio Mastino del Rio, sospettato di essere un fiancheggiatore dei partigiani. Sulla prigionia il penalista scrisse un libro (Ricordi di via Tasso) in cui rievocò un tentativo di fuga andato male. Del Rio venne liberato due giorni prima di via Rasella. Cocco, invece, fu portato alle Ardeatine: aveva 24 anni. A lui Sedilo ha dedicato una piazza mentre una lapide sulla facciata della casa natale ne ricorda il sacrificio.
Candido Manca apparteneva a una vecchia famiglia dell’aristocrazia sarda che vantava una significativa tradizione militare. Il nonno Giuseppe aveva combattuto nelle guerre di indipendenza (nel 1848 aveva reclutato 400 studenti sardi agli ordini di Carlo Alberto). Il giovane Candido si arruolò nei carabinieri. Dopo la guerra in Etiopia ed il congedo si trasferì a vivere a Roma entrando a lavorare nell’amministrazione delle strade statali. Con lo scoppio del conflitto venne richiamato. «All’atto dell’armistizio – si legge nella motivazione della medaglia d’oro – allorquando le caserme dell’arma nella capitale furono invase dalle SS per catturare i militari italiani, Manca riuscì a fuggire. Costituì un nucleo di 30 sbandati che fece parte del Fronte clandestino di Resistenza dei carabinieri. Manca compì diverse azioni di sabotaggio con grande coraggio. Ma anche lui, insieme ad altri ufficiali dei carabinieri, fu arrestato e chiuso a Regina Coeli».
Nei due mesi di detenzione ebbe modo di scrivere alla moglie. Nell’ultima lettera le inviò queste toccanti parole: «Ai miei occhi sarai sempre bella e giovane e t’amerò per tutta la vita». Due giorni dopo fu trascinato sui camion diretti alle Ardeatine.
Analogo destino attendeva un altro carabiniere sardo, Gerardo Sergi, nato a Portoscuso e vissuto a Villacidro, Quartu e Cagliari. All’inizio della guerra si ritrovò in Grecia, mentre poco dopo l’armistizio entrò a far parte della banda Caruso, composta tutta da carabinieri. Insieme ad alcuni commilitoni reduci dalla Grecia costituì una cellula attivissima. Secondo la ricostruzione fatta da Martino Contu, il sottufficiale sardo fu tradito probabilmente da una donna bionda, forse una tedesca. Rinchiuso nelle celle di via Tasso fu a lungo torturato per estorcerli i nomi dei compagni, ma il giovane resistette eroicamente. Nel 1949 gli fu conferita la medaglia d’oro.
Infine Martino Contu ripercorre dettagliatamente la vita e il tragico destino dell’ufficiale di Marina Agostino Napoleone, nato a Cagliari da una famiglia carlofortina. Dopo l’Istituto Nautico si imbarcò per la pratica marinara sulle navi civili. Nel 1940, all’inizio delle ostilità, entrò nell’Accademia navale dove uscì con i gradi di sottotenente venendo assegnato alla nave Polluce che scortava i convogli tra la Grecia e la Libia. La notte del 3 settembre del 1942 la Polluce venne colpita durante un attacco aereo e colò a picco: Agostino riuscì a salvarsi. Successivamente fu assegnato a una squadra di Mas di stanza a La Maddalena.
Dopo l’8 settembre anche la Marina italiana fu abbandonata in balia degli eventi. Non c’erano ordini, nessuno sapeva cosa fare. In quei giorni Napoleone con il suo Mas si trovava a Votri, in Liguria. Decise di tentare di raggiungere le linee americane a Sud di Roma o la Sardegna. Scrisse al fratello Carlo: «Non appena saranno ultimati i lavori al mio Mas rientrerò in Sardegna perché, se gli eventi dovessero precipitare, desidererei essere nella mia terra». Ma la Liguria cadde nelle mani dei tedeschi spingendo Napoleone a fuggire a Roma insieme a due amici ufficiali.
I tre, giunti nella capitale, presero contatto con il Fronte clandestino di Resistenza della Marina. Il 15 marzo Napoleone, con i due amici ufficiali Semini e Zironi, furono sorpresi nella loro abitazione, in viale Liegi. Secondo le testimonianze raccolte da Martino Contu, i tre stavano giocando a carte quando di colpo si spalancò la porta e le SS fecero irruzione nell’appartamento. Erano stati traditi da qualcuno che li conosceva molto bene, forse da un sottufficiale della Marina. Furono portati in via Tasso, torturati e infine alle Ardeatine.
Nel documentatissimo libro, Contu ha dedicato un’ampia parte alle note e alla bibliografia in cui raccoglie un lavoro di minuziosa ricerca durata diversi anni. Questa opera va a colmare un vuoto nella storia dei sardi morti per la Resistenza restituendo alla memoria collettiva la biografia di quattro eroici giovani.


torna su


Recensione al volume:
Giancarlo Nonnoi, Saggi galileiani. Atomi, immagini e ideologia

La Nuova Sardegna
30 marzo 2001
Rubrica: Società & Cultura

Nei suoi «Saggi» dedicati allo scienziato
Giancarlo Nonnoi ne ripercorre le fortune editoriali

GALILEO E IL SUO BEST-SELLER
E L’INQUISIZIONE FAVORÌ LA DIFFUSIONE DEL «DIALOGO»
Tirature da mille copie Per l’epoca erano numeri eccezionali

di Roberto Paracchini

Cagliari. Elia Diodati e Matthias Bernegger sono due signori del Seicento a cui Galileo Galilei deve molto. Senza di loro, la principale opera di Galileo, il «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo», non avrebbe avuto la fortuna e il peso che ha incontrato anche nel Seicento. Formatosi nella Ginevra calvinista, Diodati era spirito cosmopolita (aveva, tra le altre cose, promosso la pubblicazione della storia del Concilio di Trento di Paolo Sarpi) e convinto fautore di una visione copernicana dell’universo. Matematico e Rettore dell’Università di Strasburgo, Bernegger si sobbarcò la non facile traduzione latina del «Dialogo» (pubblicata, inizialmente in volgare, l’idioma toscano). 
Come accennato, la fortuna di Galileo Galilei, nel suo tempo, deve molto ai due contemporanei del maestro pisano. Nel terzo millennio è facile parlare di Galileo, dopo centinaia di traduzioni delle sue opere nel mondo e decine di migliaia di studi critici. Ma allora, nel 1632, anno di pubblicazione della prima edizione in volgare del «Dialogo». Il discorso era diverso. Molto diverso. C’era di mezzo non solo l’inquisizione, ma un sistema di comunicazione che rendeva il viaggio e il trasporto delle merci quasi un’avventura. Oggi la diffusione è volgarizzazione (in senso galileiano, appunto, in quanto la prima edizione dei Dialoghi venne stampata – come accennato – in volgare) passa attraverso sia i canali della comunità scientifica (riviste specializzate e accreditate). Che quel complesso sistema chiamato «media», a cui internet ha dato una irrefrenabile accelerata. Ieri no, l’avventura della cultura era più avventura: più difficile e complessa. E la storia di Galileo Galilei e della sua opera più importante (Il «Dialogo», appunto) ne è la riprova. I «novatores» d’Europa, anche quelli non impediti dall’inquisizione (come i galileisti italiani). Hanno dovuto aspettare la traduzione in latino del «Dialogo» (promossa da Diodati e Bernegger) per rinfrescare le loro menti con la dottrina galileiana.
Un capitolo, il “come” della diffusione del «Dialogo», poco esplorato come afferma il filosofo Giancarlo Nonnoi nell’ultimo suo illuminante e documentato libro «Saggi galileiani, atomi, immagini e ideologia» (pubblicato da AM&D Edizioni e che sarà presentato a Cagliari venerdì 30 marzo alle ore 17 nell’aula Magna della Facoltà di Lettere e Filosofia, durante un incontro in cui, oltre all’autore, parteciperanno anche Pietro Redondi dell’Università di Bologna, e Maria Teresa Marcialis, dell’Ateneo cagliaritano).
Nell’ampia mole di studi galileiani, spiega Nonnoi, «meno indagati rimangono invece i movimenti, le strategie e i percorsi che condussero il “Dialogo” a varcare ben presto i confini dell’Italia». In questa prospettiva «lo studio delle edizioni delle opere galileiane potrebbe fornire un contributo fondamentale o, almeno, lasciare intravedere le linee generali di un primo tracciato». Compito, quest’ultimo, che Giancarlo Nonnoi svolge egregiamente in uno dei quattro saggi del suo lavoro («l’Europa e i massimi sistemi. Scienza, ideologia, dissimulazione»). Nella storia della cultura, e della storiografia delle idee, queste ultime vengono mostrate per lo più per la loro correttezza o perfezione sintattica. Meno spesso per il travaglio che ha portato non tanto alla loro nascita, ma al loro affermarsi: strumenti e mezzi.
Per capire meglio la battaglia editoriale portata avanti da Diodati e Bernegger va precisato che la prima edizione del «Dialogo» (in volgare), poté circolare solo per cinque mesi: dal febbraio del 1632 mese di pubblicazione, all’agosto dello stesso anno (quando su sollecitazione del Papa il maestro del Sacro palazzo apostolico, Nicolò Riccardi, comunicava all’inquisizione di Firenze il comandamento» di bloccare immediatamente l’ulteriore diffusione del libro). Oltre alla persecuzione dell’inquisizione, poi, le mille copie della prima edizione del «Dialogo» (molte per quei tempi, stampate dall’editore fiorentino Giovanni Battista Landini) dovettero fare i conti con la diffusione della peste, che aveva investito il nord della penisola, e che ritardava e intralciava il commercio. Nonostante questi avvenimenti, la prima edizione del «Dialogo» fu subito un successo editoriale (per quei tempi sia chiaro), tanto che la richiesta fu decisamente superiore alle copie in circolazione. Descartes, ad esempio riuscì ad avere l’opera solo nell’agosto del 1634. Anche allora, insomma, funzionò la censura. In negativo, innanzittutto, ma anche in positivo. La messa al bando del libro da parte della chiesa (riportata in alcune gazzette e bollettini letterari) accese infatti la curiosità intellettuale ben oltre la penisola. Da qui il tentativo di intraprendere traduzioni in inglese e francese che vennero, però, superate da quella in latino promossa e realizzata da Elia Diodati e Matthias Bernegger.
Va anche detto che la fortuna e la curiosità intellettuale verso il «Dialogo» di Galileo fu indirettamente promossa anche dal dibattito tra cattolicesimo e protestantesimo. Non fu un caso, ad esempio, che gli oneri di stampa – allora molto superiori agli attuali – dell’edizione in latino (edita nell’estate del 1635) vennero assunti dalla Elzevier di Leida, una nota casa editrice olandese, localizzata in un’area dalla fortissima presenza protestante. Anche allora poi si avvertiva la necessità di dare amplificazione all’opera, tanto che nell’ultima fase di stampa (fatta a Strasburgo), si tentò di fare di tutto per terminare l’opera nella primavera del 1635: per partecipare alla mostra del libro di Francoforte (anche se non si tenne per il rovescio delle armi protestanti a Nordlingen).
L’edizione latina (rintitolata «Systema cosmicum» o «Systemate mundi» di Galileo) doveva essere inizialmente di 600 copie, ma poi divennero circa un migliaio per le numerose richieste. Come accennato la «voglia» di Galileo si era molto diffusa in Europa, come sintetizzato indirettamente nella introduzione di Bernegger alla traduzione in la tino del «Dialogo»: mancanza o penuria di copie disponibili dell’edizione fiorentina, difficoltà nei commerci ed esigenza di rendere accessibile il libro anche al lettore non in grado di intendere la lingua italiana. In più la censura che, come accennato, divenne un boomerang. 


torna su


Recensione al volume:
Bartolomeo Muggianu, Meana Sardo ed la grande trasformazione del Novecento

La Nuova Sardegna
7 febbraio 2002 
Rubrica: Società & Cultura

SOTTO IL DOMINIO DEI PRINZIPALES
LA MODERNIZZAZIONE DELL’ISOLA VISTA DA UN PICCOLO PAESE

di Gian Giacomo Ortu

Tra montagna e pianura, ma più contadino che pastorale, Meana Sardo è tra quei piccoli paesi sardi del Centro Sardegna i cui equilibri economici e civili sono stati duramente messi alla prova sin dalla grande emigrazione degli anni Sessanta: 2651 abitanti nel 1961, 2196 nel 1971. Ed è anche tra quei centri che si sforzano da qualche tempo di ritrovare nuove motivazioni di sviluppo nel ricupero della propria memoria storica. Già nel 1989 il volume «Meana. Radici e tradizioni», promosso dall’amministrazione comunale, aveva prodotto materiali di indubbio interesse in una prima ricognizione ad ampio raggio del patrimonio ambientale e storico del paese. La spigolatura talora disordinata e senza acribia di notizie varie e una visione ancora armonicistica del mondo tradizionale erano in parte compensate dalla capacità di lettura delle architetture del territorio e delle forme urbanistiche espressa dai saggi di Giovanni Lilliu e di Anacleto Luciano.
Il più recente volume «Meana Sardo e la grande trasformazione nel Novecento» (AM&D Edizioni, 20,66 euro) manifesta intenti meno ambiziosi sotto il profilo sia tematico che temporale, ma mette in evidenza un’impostazione più unitaria e coerente. Al centro della ricerca, coordinata da Bartolomeo Muggianu, un valoroso e appassionato studioso di recente scomparso, c’è il lungo e contrastato processo di «modernizzazione» che anche Meana Sardo – come tutta la Sardegna – conosce lungo il XX secolo e che porta, tra l’altro, alla ridefinizione degli assetti fondiari, con il rafforzamento della maggiore proprietà e un indebolimento della piccola e della media, ulteriormente penalizzata dalla riduzione ai minimi termini dell’area interessata dagli usi collettivi. Nel 1950 il 54 per cento dell’intera superficie del Comune è nelle mani di 17 proprietari, mentre il comunale copre soltanto 600 ettari su 7400 complessivi.
Nel cuore della «grande trasformazione» di Meana si colloca un nucleo ristretto di prinzipales, anzi di ereus – quali i Mura Agus, i Mura Cabras, i Cadeddu Marras, etc. – che hanno saputo rinsaldare la loro presa fondiaria sin dalla metà dell’Ottocento, valendosi anche di un’oculata politica di scambi e imparentamenti matrimoniali. Un ruolo eminente nel conferire a questo grappolo di famiglie un peso anche politico e amministrativo lo gioca Giovanni Maria Mura Agus, un medico che ricopre la carica di sindaco che ricopre la carica di sindaco tra il 1874 e il 1921, fungendo da terminale locale del sistema di potere tessuto nel medesimo lungo periodo da Francesco Cocco Ortu.
Bartolomeo Muggianu guarda anche con spirito critico ai risvolti meno apprezzabili di questa ipoteca sulla vita di Meana esercitata da poche famiglie, ricevendo per questo un «buffetto» postumo dal mensile «Il notiziario» di Giovanni Marras. Si avverte in verità quasi l’eco di quelle impostazioni di storiografia «alternativa» che si affermarono largamente nella sinistra italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta (da Gianni Bosio a Cesare Bermani a Nuto Revelli), e si avverte anche il senso di una partecipazione per il destino dei poveri e subalterni che sa certo di un’altra stagione di valori: ma sono disposizioni politiche e morali che non guastano, perché il volume sa aprirsi ad una considerazione più ampia e non ideologica del mondo e della cultura contadina e pastorale. Il capitolo sul «lavoro tradizionale», ad esempio, mette in luce l’enorme quantità di saperi, competenze, tecniche, abilità etc., che l’economia cosiddetta «naturale» richiedeva in merito alla coltivazione dei campi e delle vigne, all’allevamento dei bestiami da lavoro, da carne e da latte, alla conservazione e trasformazione dei prodotti. Ne emerge l’immagine di quell’uomo incessante-produttore e parco consumatore che non conosciamo più nell’abbuffata di centri commerciali e di nuove professioni che restano di frequente puramente virtuali. Ma detto ovviamente senza rimpianti, perché quell’uomo viveva con la sua famiglia in case che «sembravano tane di conigli» e subiva una soggezione senza speranza di risarcimento.
Bartolomeo Muggianu non c’è più, ma è auspicabile che il gruppo di ricerca dell’associazione «S’andala», che ha con lui contribuito alla realizzazione di questo bel libro, sappia proseguire sulla strada di una ricerca locale funzionale ad una costruzione d’identità che guardi non soltanto al passato, ma soprattutto al futuro. 


torna su


Recensione al volume:
Antonio Sassu, La dinamica economica di un sapere locale. La coltelleria di Sardegna

La Nuova Sardegna
6 aprile 2002 
Rubrica: Società & Cultura

PER LA NOSTRA CRESCITA 
I COLTELLI TRADIZIONALI MEGLIO DEL PETROLIO

di Mario De Murtas

Antonio Sassu, recentemente chiamato alla presidenza del Banco di Sardegna, è in primo luogo un professore di politica economica. Ed è proprio con l’occhio dell’economista che si è accostato al mondo delle lavorazioni tradizionali, anzi di una in particolare: quella del coltello sardo. Ne è nato un libro che si avvale dei contributi di due collaboratori, Antonio Scalas e Simone Atzeni e soprattutto di una bella sezione iconografica curata da Francesco Marras con le belle immagini dei fotografi Roberto Graffi e Elio Quattrocchi. Già il titolo, «La dinamica economica di un sapere locale. La coltelleria di Sardegna» (AM&D editore, 164 pagine, 25 euro) fa capire che si tratta di un saggio di politica economica. Un saggio che sottende un particolare approccio ai problemi dello sviluppo: la convinzione che il massimo di solidità e stabilità dei processi di sviluppo nasca dal loro radicamento nel tessuto locale, come Sassu spiega in questa intervista.
«Tra il ’98 e il 2000 – racconta – ero coordinatore di un progetto nazionale di ricerca scientifica finanziato dal ministero su “Saperi locali, innovazione tecnologica e sviluppo economico” che raggruppava le università meridionali. Il Meridione è ricco di saperi locali; saperi diffusissimi tra la popolazione di un territorio che si sono trasformati in settori produttivi industriali: l’esempio tipico è il formaggio, addirittura informatizzato, ma tra questi saperi tradizionali ci sono anche il pane, il torrone, la bottarga, ovviamente il vino. E c’è anche il settore del coltello. All’interno di questo progetto complessivo, proprio lo studio di quest’ultimo settore è diventato sempre più appassionante, fino a dare origine a questo libro».
Magari lei fino a quel giorno non si era mai occupato di coltelli.
«È così. Non me ne ero mai occupato. E invece è nato questo libro che si apre con un esame generale della produzione italiana dei coltelli, per mettere in rilievo come questa produzione sia andata gradualmente trasformandosi fino a lasciare le tecniche produttive tradizionali per adottare quelle industriali. Molti dei coltelli prodotti in Italia vengono prodotti attraverso stampi e presse, in produzioni di massa. La Sardegna, forse o in parte per il suo isolamento, ha mantenuto le tradizioni del secolo scorso, tra le quali quella certamente più importante è la forgiatura. In tempi brevi la Sardegna è diventata una regione leader nel settore del coltello tradizionale, artigianale, e quindi aveva senso studiarne le caratteristiche. Fatto questo quadro complessivo, si esamina l’evoluzione storica di questa produzione a partire dall’Ottocento».
Anche perché, pare di capire, la ripresa di questa produzione è in fondo un dato recente.
«Esatto. Abbiamo avuto un periodo particolarmente intenso nella seconda metà dell’Ottocento, per merito principalmente dei produttori di Pattada. Nella prima metà del Novecento c’è stata una caduta della produzione per la concorrenza da parte dei produttori stranieri, e dopo la seconda guerra mondiale c’è stata una ripresa della produzione ad opera di alcuni fabbri che si sono specializzati in questa produzione».
Anche attraverso il riuso dei materiali?
«Anche attraverso il riuso: nel primo periodo del dopoguerra era assai facile trovare balestre di automobile, soprattutto di automobili tedesche, fatte con acciaio pregiato. Poi, man mano che cresceva la produzione, si è passati all’acquisto di acciai particolari».
Ma in tempi di globalizzazione, questo ritorno ai saperi locali, che senso ha?
«Proprio in tempi di globalizzazione il tema del localismo diventa sempre più attuale, e non mi riferisco solo alle produzioni manifatturiere. In termini generali possiamo dire che si sente con maggiore forza il desiderio di riaffermare la propria identità. Non a caso nel momento in cui si parla della diffusione di una sola lingua di carattere generale si rafforzano anche le esigenze di valorizzare i dialetti e le culture locali. In un mondo globalizzato l’esigenza di rafforzare il localismo anche in termini produttivi, non è meno su un solo fattore di produzione e un solo tipo di conoscenze. Il processo di sviluppo economico richiede lo sviluppo complementare dei fattori di produzione, dei settori e delle conoscenze. Questo è il punto fondamentale: non si può pensare che lo sviluppo di una regione, tanto meno di un paese possa basarsi unicamente su saperi locali. Anche perché la globalizzazione alla quale accennavamo ci dà spunti diversi, conoscenze diverse e quindi possibilità di percorrere differenti traiettorie di sviluppo. Ma se invece lo sviluppo economico viene visto come processo sistemico, mettere insieme vari settori, in parte tradizionali e in parte particolarmente avanzati, è una soluzione saggia oltre che corretta».
Parliamo anche delle prospettive di verticalizzazione.
«Questo è un altro aspetto del processo produttivo del coltello. È chiaro che non si può pensare a un processo di verticalizzazione da parte del singolo artigiano che molto spesso concepisce il suo prodotto come un’opera d’arte. Coltellinai che fanno coltelli meravigliosi, è difficile che possano decentrare una parte del loro prodotto ad altri. Ma considerando che abbiamo una produzione di massa che viene da fuori e invade il nostro mercato facendola passare per produzione regionale, con il nome di Pattada…».
Che è un marchio depositato di produttori toscani di Scarperia.
«Appunto. Per questo, ritengo che sia opportuno utilizzare i nostri saperi per produzioni semindustriali. Ritengo che sia possibile adottare anche tecniche di decentramento: per esempio decentrare la produzione del manico solo ad alcuni produttori, la produzione delle lame ad altri e un’altra impresa, per esempio un consorzio, potrebbe mettere insieme le une e gli altri e fare l’assemblaggio. Non dimentichiamo che l’aspetto più importante per la commercializzazione è il marchio, quindi è possibile decentrare questo tipo di produzione e accentrare la parte relativa al commercio e al marketing. Questo, ne sono convinto, potrebbe portare a uno sviluppo del settore del coltello, e non solo del coltello ma in genere delle lame da taglio, che può dare un contributo al reddito e all’occupazione».
Cosa intende per lame da taglio?
«Oltre i coltelli prodotti con tecniche di massa, cioè i coltelli da cucina, la coltelleria da tavola elegante, ci sono per esempio i bisturi, che sono lame che vengono prodotte prevalentemente a Magnago, nel Friuli, e hanno un notevole successo. Lame da taglio sono anche i coltelli da sommozzatore, coltelli particolari per il taglio e la pulitura dei ricci, per particolari molluschi.Direi che spazio ce n’è tanto».
Forse è il caso di parlare del modello di sviluppo che si delinea qui, il suo rapporto con la cosiddetta economia morale. Vuole spiegare, da economista, queste questioni?
«Intanto io assegno un valore particolare al lavoro manuale, quello dell’artigiano che opera innanzitutto per soddisfare un’esigenza personale che risponde sempre a valori individuali riconosciuti: la bellezza del prodotto, il valore della manualità, quindi l’affermazione della propria personalità attraverso questa attività che molto spesso viene abbandonata e disprezzata. A questo si riconnette anche al valore che l’artigiano attribuisce in termini di prezzo. Normalmente non è un’attività speculativa, il produttore che comincia a fare queste cose lo fa perché si sente appagato per il riconoscimento che il mercato gli dà senza però puntare a processi speculativi. Da questo punto di vista ha molta simpatia per questo tipo di attività».
Questo è in linea con il pensiero di molti economisti che ritengono poco pagante cercare di sviluppare una regione o un paese prescindendo dalle sue caratteristiche tradizionali.
«In generale ritengo le politiche basate inizialmente sulle risorse e sui saperi locali, che poi naturalmente vanno crescendo con le integrazioni delle conoscenze, pur mantenendo il connotato del localismo, hanno assunto un ruolo nel mondo della globalizzazione. Ritengo che queste siano le politiche di sviluppo più solide e stabili. Altrimenti ci troveremmo di fronte all’importazione di un modello di sviluppo abbastanza lontano. Se pensiamo alla politica degli anni Sessanta e Settanta, in cui ci è stato imposto un modello di sviluppo abbastanza lontano, completamente diverso da quello che era stato seguito fino ad allora, possiamo dire che certamente ci sono stati vantaggi, perché è cambiata la cultura, e certamente l’industria è stata fattore di questo cambiamento. Ma in ultima analisi, se guardo al risultato di quella politica, oggi a distanza di trenta o quarant’anni, vedo solo cenere e disastri. Se do uno sguardo alle nostre produzioni tipiche, per esempio il formaggio e il vino, vedo che sono sempre in buone condizioni».


torna su


L’Unione Sarda
5 maggio 2002 
Rubrica: l’unione dell’Economia

COLTELLI DOC PER IL MERCATO ESTERO
NELL’ISOLA UN GIRO D’AFFARI DI UN MILIONE 704 MILA EURO
Nel libro di Antonio Sassu la ricerca su una produzione
di nicchia tipicamente sarda legata al turismo

R.Ec.

Qualche tempo fa il New York Times ha dedicato una pagina ai coltelli di Pattada, l’unico posto al mondo dove la lavorazione è fatta ancora con tecniche antichissime. I produttori di questo paesino del Sassarese – l’aristocrazia dei coltellinai – hanno vinto l’ennesimo premio internazionale e si sono conquistati una nicchia di mercato redditizia, affascinante e con importanti chance di sviluppo. È una storia che in Sardegna può essere scritta per diversi protagonisti, il pane carasau e il vino, l’agricoltura biologica e i gioielli. Un “sapere locale” unico (perché frutto di un territorio e di una cultura ben precisi) che diventa “industria” che esporta, dà posti di lavoro, stimola altri settori e contribuisce a dare un’immagine dell’Isola che calamita turismo d’élite. La qualità eccellente dei manufatti, la dimensione agile delle imprese, le moderne tecniche di marketing (molti hanno un sito Internet) hanno creato un piccolo miracolo economico; la scarsa collaborazione tra aziende, la concorrenza di altre regioni che hanno scelto la produzione in serie, le difficoltà di accesso al credito, rischiano di distruggerlo. E allora la strada da seguire è quella indicata da Antonio Sassu, professore di Politica economica all’Università di Cagliari e presidente del Banco di Sardegna, nel suo ultimo libro (La dinamica economica di un sapere locale, la coltelleria di Sardegna, AM&D Edizioni, 25 euro), frutto di un approfondito studio sul campo che rientra in un progetto di ricerca nazionale (“Know-how locali, progresso tecnico e sviluppo economico”), finanziato dal Murst. Secondo Sassu bisogna puntare su tre aspetti: affiancare al know-how secolare quello meno nobile “di fabbrica”, creare un marchio Doc e incrementare la promozione commerciale (un bell’esempio è quello della mostra guspinese Arresojas) coinvolgere le istituzioni, regionali ma soprattutto provinciali e comunali, per la protezione e valorizzazione del comparto.
L’offerta. Nei primi mesi del Duemila – è spiegato nel libro – in Sardegna ci sono 22 imprese ufficialmente registrate alle Camere di commercio, con 38 addetti. A queste bisogna aggiungere 166 produttori abusivi o sommersi, con una forza lavoro complessiva di 200 unità. I comuni che hanno la maggiore concentrazione delle imprese sono Pattada (41%) e Arbus, Guspini e Santulussurgiu (con il 9% ciascuno). Per quanto riguarda invece i produttori non ufficiali c’è una diffusione più ampia in tutta l’area sud-occidentale della regione, soprattutto nelle zone dell’arburese, del guspinese e del Sulcis-Iglesiente, grazie a una tradizione estrattiva che ha origini millenarie. «hi sa costruire le macchine utilizzate in miniera sa fare anche i coltelli», sottolinea Sassu, «così con l’agonia dell’industria estrattiva, e tenuto conto che quello del fabbro è un mestiere duro, si registra una graduale conversione».Il giro d’affari complessivo per i produttori ufficiali è di 807 mila euro l’anno, con una produzione media per addetto pari a circa 21 mila euro circa.Per gli “abusivi” la stima si aggira sui 620 mila euro, con una produzione di 7 milioni annui. Complessivamente il “fatturato” dei coltellinai sardi raggiunge un milione 704 mila euro, perché «bisogna aggiungere almeno un 20% rispetto a quanto dichiarato dagli interessati».
La domanda. Negli anni Cinquanta in Sardegna, è rimasto un solo coltellinaio. La domanda da parte del mondo agropastorale va progressivamente diminuendo, per le operazioni di macelleria, per tagliare gli ortaggi, a tavola, si sostituiscono i coltelli moderni, realizzati con tecniche industriali di massa e venduti a prezzi bassi. Il “sapere artigianale” è insomma a un passo dal funerale. Negli anni Sessanta, un fattore esterno rimette tutto in discussione. Sorge e si sviluppa una richiesta legata al turismo e al collezionismo. «A cominciare dagli anni Cinquanta», sottolinea Sassu, «la Regione Sarda investe molto in strutture alberghiere con risultati deludenti. Tuttavia l’intensa pubblicità, effettuata insieme con l’attività editoriale e giornalistica, contribuisce alla diffusione di un’immagine dell’Isola come terra che ha conservato incontaminati il mare e l’ambiente, e ha mantenuto costanti usi, costumi e tradizioni. Questa immagine viene venduta e accettata bene dal mercato. Così, negli anni Settanta, ci sono tutte le premesse per un consolidamento del turismo nella costa algherese e per la nascita e lo sviluppo della Costa Smeralda. In questo contesto, oltre ai beni naturali e ambientali, anche quelli tipici dell’artigianato tradizionale vedono crescere la domanda dall’esterno». Il coltello è uno di questi. E oggi – sostiene uno ei più noti coltellinai di Pattada – il 99% della produzione è esportato.


torna su


Il Messaggero sardo
ottobre 2002 

UNO STUDIO SCIENTIFICO SULLA PRODUZIONE DI COLTELLI SARDI
REALIZZATO DALL’ECONOMISTA ANTONIO SASSU
PRESIDENTE DEL BANCO DI SARDEGNA.

LE POTENZIALI RISORSE DI UN’ANTICA ATTIVITÀ

di Eugenia Da Bove

Depositari di un sapere antico, i maestri coltellinai della Sardegna sono oggi una ristretta cerchia di artigiani gelosa e consapevole del valore delle proprie creazioni. In La dinamica economica di una sapere locale. La coltelleria di Sardegna (AM&D Edizioni, euro 25,00, pagine 168) l’economista Antonio Sassu, attuale presidente del Banco di Sardegna, analizza un settore della produzione sarda poco studiato ma dalle grandi potenzialità sia dal punto di vista economico sia da quello dell’immagine dell’isola nel mondo. Pur avendo un impianto prettamente economico il saggio di Sassu dà conto anche della storia della coltelleria sarda e italiana, nella sezione affidata alla giovane studiosa Antonella Scalas, e dell’ambiente socio istituzionale nel quale operano i coltellinai sardi nel capitolo scritto da un altro allievo di Sassu, Simone Atzeni. Il libro si avvale inoltre di una nutrita sezione iconografica che illustra efficacemente la grande varietà di coltelli sardi e i diversi processi e tecniche di produzione. Emerge così un quadro del passato, del presente ma anche di quello che potrà essere il futuro di un comparto (la cui produzione ha un valore stimato intorno ai 3 miliardi di lire) finora rimasto legato a forme, sebbene alte, di artigianato. E che rischia di non riuscire più a tramandare il proprio know-how mentre avrebbe tutte le caratteristiche per diventare una vera e propria industria.
Secondo l’indagine condotta gli odierni produttori di coltelli tradizionali sono nell'Isola 22 ai quali vanno aggiunti altri 166 non ufficiali, hobbisti che comunque hanno una loro committenza spesso costituita da facoltosi collezionisti. Si tratta in entrambi i casi di piccole imprese con pochi addetti, più spesso individuali, sparse in alcuni centri dell’isola come Pattada, Arbus, Guspini e Santulussurgiu. Centri nei quali l’arte della coltelleria è stata tramandata di padre in figlio secondo tecniche ormai scomparse nel resto del mondo o dove la produzione del coltello è sorta solo dagli anni Settanta proprio per rispondere alle esigenze di una clientela diversa da quella tradizionale. Se infatti fino a pochi decenni orsono la produzione andava a soddisfare una domanda locale legata all’uso quotidiano che del coltello si faceva in una società agro pastorale, oggi l’offerta è rivolta principalmente al settore del turismo e al collezionismo. Ma la domanda di un oggetto che ormai può essere prodotto con tecniche industriali senza perdere troppo delle sue caratteristiche migliori è secondo Sassu, potenzialmente molto più ampia. Lo dimostra anche il fatto che alcuni produttori italiani, in particolar modo toscani, si sono appropriati del marchio “Pattada” e fabbricano industrialmente, per poi vendere a prezzi sensibilmente più bassi, coltelli che gli acquirenti sono convinti vengano realizzati in Sardegna. La conclusione e il suggerimento dell’autore è perciò quello di non abbandonare la nicchia di mercato medio alta ma di ampliare il target attraverso una produzione industriale realizzata entro i confini dell’isola. Una strategia che porterebbe fra l’altro alla creazione di nuovi e numerosi posti di lavoro. A tale intrapresa, sottolinea, Sassu devono però collaborare le istituzioni politiche con la creazione di un marchio “Doc” per il coltello sardo e quelle creditizie con un supporto economico alle nuove imprese che decidessero di affacciarsi sul mercato. Un mercato che sarebbe ampio e internazionale e che sarebbe nuovo smalto all’immagine e all’economia dell’isola.
In occasione della presentazione del volume La dinamica economica di un sapere locale. La coltelleria di Sardegna (AM&D Edizioni, euro 25,00, pagine 168) abbiamo rivolto alcune domande all’autore, Antonio Sassu, professore di politica economica presso l’Università di Cagliari e attuale presidente del Banco di Sardegna.
Come nasce l’idea di dedicare uno studio a un argomento così specifico come quello della coltelleria?
«Da almeno cinque anni mi occupo di problemi relativi ai saperi locali. Infatti sono coordinatore di un progetto di ricerca finanziato dal ministero dell’Università a cui partecipano diverse università del Meridione. Si tratta di un progetto che ha come obiettivo lo studio e la valorizzazione dei saperi locali. Per quanto riguarda la Sardegna ci siamo occupati del pane, del miele, dei tessuti, dell’olio, del cuoio, cioè di tutti quei settori in cui abbiamo un’attività produttiva fortemente identitaria. Nel corso di questi studi ci siamo resi conto che il settore della produzione dei coltelli aveva la consistenza per essere studiata. In Sardegna esiste un grande numero di imprese che producono coltelli ma, mentre la produzione italiana del coltello si è saputa trasformare inserendo molti elementi tecnologici nuovi, gran parte dei produttori sardi ha mantenuto una produzione tradizionale».
L’indicazione fondamentale che emerge dal suo studio sulla coltelleria sarda è sostanzialmente quella che si tratti di una produzione suscettibile di espandersi verso un target medio basso. Lei lo crede davvero possibile si come economista che come uomo di banca?
«Molti dei coltelli che vengono venduti in Sardegna sono realizzati fuori dall’isola e hanno un prezzo che si aggira sui 25-60 euro, mentre il coltello prodotto in Sardegna ha prezzi sensibilmente più alti anche perché è realizzato in maniera diversa. Questa produzione che ha prezzi medio bassi e che si rivolge a una fascia più ampia di acquirenti potremmo farla noi o altrimenti questi coltelli verranno comunque offerti e venduti in Sardegna. Si tratta insomma di un prodotto che ha un mercato che oggi viene occupato da produttori non sardi: ecco, credo che sia possibile che i sardi si sostituiscano a questi. E dato che la Sardegna ha un’ottima reputazione in questo campo credo che sia possibile vendere anche fuori dell’isola facendo concorrenza direttamente agli altri con questo tipo di produzione».
Lei sostiene anche la necessità di un supporto a questo settore da parte di Regione e istituti di credito. 
«Se vogliamo creare un distretto industriale di questo tipo si tratta di supporti necessari per fare emergere quel consistente numero di “hobbisti” – ne abbiamo contati 166 – che porterebbe il settore a circa 200 aziende: neanche i produttori di pecorino sardo sono tanti».
Una domanda più generale sull’economia sarda e sui saperi locali: perché la Sardegna che ha tante produzioni di qualità, che lei stesso ha già citato, e anche un patrimonio ambientale e archeologico unico al mondo, non riesce ad avere un decollo e uno sviluppo economico reale basato su queste sue peculiarità?
«Indicherei due elementi: uno è la mancanza di conoscenze adeguate, cioè la mancanza di una evoluzione delle conoscenze, ovvero un’arretratezza delle tecnologie. Oggi ad esempio i produttori di pane carasau, che fino a vent’anni veniva fatto a mano con il forno a fuoco, producono un pane altrettanto buono con un processo in parte meccanizzato. Oltre a non perdere in qualità questo pane può quindi essere prodotto in grandi quantità e a costi più bassi cioè, come dicono gli economisti, con grandi economie in scala. In questo caso le macchine sostituiscono la manodopera che è molto costosa e ha una produttività più bassa. Come dimostra questo esempio, utilizzando una tecnica produttiva più avanzata si possono fare notevoli progressi. Ecco perché lo sviluppo locale non è andato particolarmente avanti. Ma vi è anche un problema di fiducia e di sicurezza in certe zone, perlopiù interne, dell’isola dove la criminalità è più diffusa e dove la diffidenza e la paura hanno finora impedito un vero e proprio sviluppo economico. D’altra parte ci sono dei segnali che inducono all’ottimismo: oggi si avverte una maggiore sensibilità da parte delle istituzioni pubbliche a questi problemi e, inoltre, i giovani che vanno a studiare e a lavorare fuori dell’isola quando ritornano portano nuove conoscenze e nuova voglia di fare. Insomma esistono fondate speranze che le cose possano cambiare».


torna su


Recensione al volume:
Luisa Coda, Ceti intellettuali e problemi economici nell'Italia risorgimentale

La Nuova Sardegna
18 novembre 2002
Rubrica: Cultura

Il Risorgimento visto dalla studiosa Luisa Coda

INTELLETTUALI ED ECONOMIA PRIMA DELL’UNIFICAZIONE

di Eugenia Tognotti

In una fase di rapidissime trasformazioni nel nostro Paese, si è fatta più acuta l’esigenza di spingere lo sguardo verso il passato per ricercarne i fatti contingenti e le radici più profonde. Particolarmente istruttivo si rivela così lo sforzo di indagine sui decenni che precedono l’unificazione e che coincidono con la stagione storica del Risorgimento. Si tratta di un periodo che segna l’avvio di una fase profondamente diversa per l’Italia tutta. Solo allora il Paese fu costretto a misurarsi con i problemi della modernità e con i suoi elementi costitutivi: l’idea di nazione, l’unità politica, lo sviluppo economico. A quest’ultimo tema – soffocato per troppo tempo dall’interesse storiografico per i protagonisti e gli eventi del movimento risorgimentale – sono dedicati alcuni studi recenti come questo di Luisa Cosa, storica dell’economia e professore all’Università di Sassari che ha ricostruito il dibattito sui problemi dell’economia attingendo a una pluralità di fonti poco note. L’autrice segnala, tra l’altro, a ragione, il ruolo svolto dai “Congressi degli scienziati”, il primo dei quali si svolse a Pisa nel 1839.Da allora, per alcuni anni, matematici, ingegneri, agronomi, tecnici, accademici o iscritti a società scientifiche o ad importanti accademie come quella dei Georgofili – uscendo dai ristretti confini dei diversi Stati regionali – si incontrarono a cadenza annuale per scambi e confronti culturali sempre più finalizzati alla trattazione di problemi agricoli, “industriali, igienici. Le sezioni dell’attività congressuale agronomia e tecnologia, zoologia e anatomia comparativa, fisica e matematica, geologia e medicina – diventavano così luogo di discussione, con strumenti e metodi rinnovati, di problematiche economiche, giuridiche e sociali.
I “dotti” riuniti a congresso – si riconoscevano così come portatori di una ragione scientifica che li legittimava come un'élite capace di produrre autonomamente un progetto di trasformazione economica e sociale per un’Italia che non era un’astratta idea culturale, ma un’entità geografica precisa con problemi specifici di sviluppo. Quanto influirono nella formazione di uno spirito unitario della borghesia nazionale quelle assise che radunava il fior fiore dell’intellettualità tecnico-scientifica del tempo? La questione è ancora aperta. Certo è che se dal punto di vista politico, come sostiene qualcuno, il filo rosso del Risorgimento fu il principio di libertà, dal punto di vista economico fu invece la «volontà di riscattarsi dalla dipendenza straniera, di porre le basi affinché i prodotti italiani, agricoli e manifatturieri, fossero non solo in grado di misurarsi con successo con quelli esteri nel mercato della Penisola, ma anche di aprirsi un varco in quello internazionale».


torna su


Recensione al volume:
AA.VV., Storia del movimento sindacale nella Sardegna meridionale

La Nuova Sardegna
30 dicembre 2002 
Rubrica: Cultura

IN PRINCIPIO FURONO LE LEGHE
«STORIA DEL MOVIMENTO SINDACALE NELLA SARDEGNA MERIDIONALE», 
CON PREFAZIONE DI SERGIO COFFERATI
In libreria il saggio di quattro giovani ricercatori

di Giuseppe Pulina

In principio furono le leghe di resistenza e le società di mutuo soccorso, più avanti, negli anni a noi più vicini, da queste prime cellule di associazionismo sindacale emerse e prese corpo l’embrione delle odierne organizzazioni di tutela dei lavoratori. Nel Medio Campidano, come nel resto della Sardegna e del continente, la linea di formazione e diffusione del sindacalismo seguì un percorso per così dire tortuosamente uniforme, segnato da crisi, esaltanti successi e rovinose cadute. Quando sarà definitivamente scritta, e del risultato raggiunto dovranno però dirsi soddisfatti tutti gli specialisti della materia, la storia del sindacato in Italia dovrà tenere necessariamente conto delle differenti tappe e dimensioni territoriali attraverso le quali è maturato nel tempo il suo processo di crescita. Oggi, un contributo alla storia del sindacato viene da quattro giovani ricercatori del Centro Studi SEA, Raffaele Callia, Gianpiero Carta, Martino Contu, Maria Grazia Cugusi, autori di un voluminoso saggio sulla “Storia del movimento sindacale nella Sardegna meridionale”, che si avvale anche di una prefazione di Sergio Cofferati. Un’occasione per l’ex segretario della Cgil per sottolineare, oltre ai meriti del libro, l’importanza del ruolo che i sindacati hanno avuto nella storia nazionale, dagli albori promettenti delle loro prime comparse ai tempi più recenti, che ne hanno visto e ne vedono tuttora in discussione le conquiste realizzate e la strategia unitaria.
La ricerca dei quattro studiosi non ruota attorno ad un preciso e comune presupposto storiografico, una tesi di partenza da suffragare con dati e documenti. È, molto più semplicemente (e non è comunque poco), il racconto di un’intensa pagina del sindacalismo sardo, svoltasi tra fine Ottocento e fine millennio, soprattutto nel Medio Campidano, laboratorio politico ideale per definire strategie, compiere analisi e saggiare la portata e la tenuta delle rivendicazioni del movimento dei lavoratori, il non sempre facile trasformarsi di queste in istanze politiche e l’entrata in scena di nuovi soggetti (la Chiesa locale, ad esempio) in grado di discutere e orientare la società civile. Nelle vicende del movimento sindacale che ebbero come scenario il bacino minerario dell’Iglesiente, Villacidro e il Guspinese, trovano conferma tendenze contemporaneamente in corso in altre regioni del Paese: fatto che la dice tutta sulla solidità dell’antagonista delle organizzazioni sindacali tanto nell’isola quanto nel resto d’Italia.
Un ostacolo non facile da superare fu, per il movimento sindacale della Sardegna meridionale, la stessa base del reclutamento di operai e minatori, con le maestranze qualificate che, verso fine Ottocento, provenivano, di norma, dalla Penisola; per non parlare dell’ibrida natura professionale del salariato sardo, spesso operaio e contadino a un tempo, visto che una parte non trascurabile del reddito familiare continuava ad essere ricavata dal lavoro nei campi. Sulle fortune – non poco travagliate e discutibili – del primo sindacalismo sardo inciderà anche la miopia di una visione strategica che privilegiò il minatore e l’operaio delle fabbriche, trascurando il coinvolgimento, tanto possibile quanto essenziale, di pastori e contadini. Non fu, tuttavia, un problema di leader, di scarso dinamismo e inefficienza organizzativa, come dimostra la parabola della militanza di Giuseppe Cavallera a Carloforte, dove non prese a cuore solo le sorti dei battellieri che facevano la spola tra la terra ferma e l’isola, ma anche quelle – ancor più difficili da sostenere – di tutti i minatori del Sud Sardegna. Proprio la vicenda di Cavallera mette in luce la spaccatura del fronte antigovernativo nell’Italia dei primi del Novecento, alimentata dalla contrapposizione tra repubblicani e socialisti, e dall’erosivo conflitto, interno al PSI, tra massimalisti e riformisti.
Il libro sostiene, inoltre, la tesi di un sindacalismo locale capace di lasciare un’impronta anche sugli sviluppi del movimento nazionale. Paradigmi risulterebbero i fatti di Buggerru del settembre del 1904, da cui scaturì il primo sciopero nazionale della storia sindacale italiana. Buggerru fu allora l’evento che, meglio e più di altri, diede la misura del solco che si era ormai tracciato tra le due componenti del socialismo, mettendo definitivamente fuori gioco i turatiani riformisti dalla spirale giolittiana che li avrebbe voluti integrare nella macchina di governo. Prima e dopo il fascismo, attraverso l’assorbimento del dinamismo sindacale nelle maglie del corporativismo, movimenti, sigle e associazioni dei lavoratori sperimentano l’infruttuosità di strategie di lotta che ricalcavano modelli d’importazione che non si addicevano affatto alla realtà sarda. Un errore cui il sindacato sardo sembrerebbe aver rimediato negli anni Settanta con la creazione della Camera del lavoro di San Gavino e la trasformazione delle principali questioni economiche e occupazionali in vertenze territoriali.


torna su


Recensione al volume:
Franco Masala, Architetture di Carta. Progetti per Cagliari (1800-1945)

La Nuova Sardegna
10 febbraio 2003 
Rubrica: Cultura

CAGLIARI, CITTÀ DEGLI OPPOSTI
UNO SVILUPPO NEL SEGNO DEL BINOMIO ACQUA-TERRA


Un saggio di Franco Masala analizza la crescita urbanistica
del capoluogo sardo dal 1800 al 1945

di Sandro Roggio

Nello sfondo di ogni città c’è una sequenza di idee inattuate, di progetti interrotti, di aspirazioni individuali e collettive ad assetti diversi, difficile dire se migliori o peggiori di quelli che si sono realizzati.
Guardare le figure urbane attraverso i disegni che le hanno prodotte e i disegni che sono rimasti esercizi – dimostrazioni un po’ astratte di come sarebbero andate le cose –, aiuta a capire il rapporto complicato che si stabilisce tra le comunità, le classi dirigenti, e i luoghi. Ogni storia urbana, ogni parte di città ha un retroterra di vicende dove le differenti visioni, spesso in conflitto, costituiscono il nesso conduttore. I grandi complessi monumentali del passato, come ogni piazza o strada di epoche recenti, nascondono un retroterra frammentato di velleità, di soggetti che si sono fatti sentire e un caleidoscopio di microfigure sociali che si intravedono appena nel processo di costruzione della città.
Tutti questi nessi, a partire dal rapporto tra committenti e progettisti, condizionato dalle disponibilità di risorse, servono per capre la storia di ogni insediamento umano.
Il libro di Franco Masala, «Architetture di carta. Progetti per Cagliari 1800-1945», si colloca in modo esemplare in questo filone di ricerca. Un libro di architettura come – convincente sul piano del metodo, eccellente per la documentata analisi – è sempre in ritardo rispetto alla cresciuta attenzione del pubblico, a lungo sottovalutata, per la storia delle città che abita.
È un libro raro nel panorama editoriale – quello sardo in particolare – perché i libri di architettura solo da poco trovano minori difficoltà ad essere pubblicati, con adeguatezza di apparati iconografici (rispetto a quelli di pittura più sostenuti e normalmente generosi di pagine e di foto). E in questo occorre dare atto alla determinazione di AM&D di Anna Maria Delogu che non è nuova a queste imprese.
Masala è uno studioso attento alla storia dell’architettura in Sardegna. I suoi lavori (su Cagliari ha tra l’altro pubblicato nel ’96 un saggio nel volume di Aldo Accardo per Laterza) dimostrano un’insolita capacità di spiegare attraverso le carte d’archivio la formazione del processo decisionale sulla città; un’attività che si può condurre con successo solo grazie a una paziente analisi dei documenti e al loro confronto sistematico.
Cagliari è una delle città più belle del Mediterraneo: forse più per la sua straordinaria giacitura che per il modo con cui è stato interpretato il suo paesaggio naturale, per come la sua condizione ambientale ha dettato regole insediative più di recente malintese (ma hanno resistito soluzioni spaziali e figurative di grande suggestione).
La sua intensa vicenda urbanistica non lascia indifferenti. Cagliari è una città dove si avverte, più che altrove, una intensa relazione tra “opposti” che la segnano in profondità. Innanzitutto acqua/terra (o sabbia per toccare un punto dolente) come primo binomio conduttore, natura/artificio che sul precedente si incardina.
Quindi opulenza/povertà per gli scarti tra palazzi grandiosi e case povere e minute; sopra/sotto per le impressioni mutevoli che si avvertono passando dalle quote inferiori a quelle del castello, vicino/lontano per l’alternarsi degli sguardi introversi nelle strette strade che obbligano a vedere cose piccole e preziose e d’improvviso l’orizzonte.
Ma anche vecchio/nuovo per l’accumulo di architetture e per il contrasto tra l’equilibrio delle soluzioni adottate nel passato e le sciatte ingerenze contemporanee.
È evidente come queste antinomie, sottolineate dalle differenti modalità di organizzazione spaziale dei quartieri storici (Castello, Marina, Villanova, Stampace), siano coinvolgenti e quanto abbiano contato nelle scelte di architetti e ingegneri, come le forme e gli stili delle architetture (piemontesi, italiane, europee) siano state filtrate attraverso la complessità dei paesi saggi e delle condizioni climatiche.
I più importanti eventi che hanno deciso la forma di Cagliari sono esposti da Masala con rara efficacia nonostante il corredo iconografico sobrio, monocromatico (ma i grandi libri di storia dell’architettura, la più costosa delle arti, sono in genere illustrati in modo essenziale).
Il racconto, con riferimento a tracce tematiche (tra cui i progetti di primo Ottocento, la stagione dei concorsi, le architetture dell’effimero e quelle per le case popolari e operaie) coglie l’evoluzione della città attraverso i contributi dei tanti progettisti passati nella capitale sarda.
Dagli architetti invitati dal governo sabaudo per realizzare la strada reale (Viana, Marchesi, Cominotti) a quelli che provengono da questa straordinari esperienza come allievi delle scuole del Genio (Gaetano Cima), mentre si distingue ancora nel Capo di Sotto l’opera dei due più anziani ingegneri militari sassaresi Vittorio e Carlino Pilo Boyl, apprezzati a corte, in particolare da Carlo Felice.
Spicca nel volume l’attività di progettista e docente di Gaetano Cima, il primo cagliaritano che stabilisce un rapporto stabile con la città; la personalità più rilevante, il cui contributo appare decisivo per la città a metà Ottocento e al quale spetterà un indubbio ruolo di predominio professionale e culturale, “una posizione, osserva Masala, fondamentale per il controllo, la verifica e il collaudo di quanto si andava costruendo o soltanto proponendo in città”. Un’attività che si proietta oltre Cagliari (per i contatti che stabilisce fuori dalla Sardegna) e oltre il suo tempo con eredi autorevoli e singolari, come Filippo Vivanet, un intellettuale che sembra anticipare il dibattito della cultura architettonica in Italia sulla tutela dei monumenti (a cui si connette l’opera di Dionigi Scano che Masala colloca in continuità con quella di Cima e Vivanet).
Risultano dal lavoro le fasi cruciali della vicenda urbanistica cagliaritana attraverso una grande quantità di contributi. Si spiega il dibattito nella fase della trasformazione da piazzaforte a città borghese, attraverso le difficoltà a reinterpretare le strutture pensate per la difesa; e quando si avverte la necessità di progettare in modo moderno (così da assicurare alle amministrazioni i risultati per i quali si impiegano le risorse pubbliche). Si spiega come anche a Cagliari la necessità di un controllo rigoroso delle trasformazioni urbanistiche, mediante la adozione di nuovi regolamenti urbanistici, con la nomina di commissioni di controllo dell’attività edilizia abbia una causa fondamentale nei rischi di ordine igienico-sanitario.
Nel passaggio tra Otto e Novecento, come il libro evidenzia, la produzione di idee per la città si infittisce proporzionalmente alle attese di una comunità proiettata verso un’altra epoca. Si apre la stagione dei grandi interventi privati e pubblici che culminano nelle spettacolari soluzioni ecletiche e moderniste nella via Roma, uno dei temi urbani più appassionanti per imprenditori e progettisti, o nei raccordi dei dislivelli che danno vita a splendide scene come quella del Bastione Saint Remy.
Si pongono anche per Cagliari le questioni connesse al vecchio centro (anche qui pensato come il buco nero causa dei tanti mali); si segnalano le molte demolizioni che sono il segno dei tempi e il frutto, luogo per luogo della maggiore o minore sensibilità. In questo caso, si osserva, “incuria, ignoranza, speculazione, catastrofi annunciate sono le cause primarie di queste demolizioni” che costituiscono un lungo elenco di perdite anche importantissime.
In seguito sarà l’edilizia scolastica e universitaria e la grande questione delle abilitazioni che si apre nel primo dopoguerra a caratterizzare il dibattito che prosegue nel Ventennio.
Masala aiuta a riguardare Cagliari con un punto di vista mobile e a rifuggire da semplificazioni. Così la città di oggi, attraverso i prodotti di una serie di autori individuali e collettivi che si sono accumulati nel corso del tempo – sommandosi, contrapponendosi vicendevolmente –, assume un’altra connotazione. Sembra di poterne decifrare meglio il corpo nel quale diverse generazioni di committenti e progettisti hanno lasciato le proprie tracce aggiungendo e togliendo comunque modificandone parti grandi o piccole. Ma non si può proporre un unico punto di vista e sarebbe impossibile produrre assemblaggi dimostrativi: così è meglio che ciascuno provi a percorrere un proprio itinerario che, secondo l’autore, potrà consentire a chiunque «di smontare e rimontare la città a suo piacimento come in certi capricci settecenteschi».


torna su


Recensione al volume:
Marinella Lörinczi, Il libro del Fenicottero. Immagini della "Gente Rossa" nelle lingue e nelle arti

L’Unione Sarda
21 giugno 2003 

Scaffale sardo: Rubrica di Gianni Filippini

Il primo incontro con questo volume particolare sollecita una perplessità: può una docente universitaria di linguistica romanza scrivere Il libro del fenicottero, cioè ricreare con testo e immagini tutte le suggestioni di questo incantevole uccello? Poi, anche se l’autrice, Marinella Lörinczi, ammette in premessa di aver affrontato un percorso conoscitivo inconsueto, la lettura sgombra il campo da ogni dubbio e addirittura condanna alla banalità l’iniziale domanda.
Malgrado il sottotitolo reciti: “Immagini della Gente Rossa nelle lingue e nelle arti”, il libro del fenicottero (AM&D edizioni, collana “Agorà”) non propone certo il viaggio di un ambientalista. E infatti un primo ma appassionante bilancio scientifico di una ricerca sulla storia sociale del fenicottero, cioè – per dirla con l’autrice – «un quadro d’insieme di come l’esistenza del fenicottero sia stata recepita dall’uomo sul piano della lingua, delle credenze e degli usi, nella letteratura, nelle arti figurative e nella scienza». Ed anche, come caratteristica specifica della pubblicazione, in tutta una serie di sottofiloni via via scoperti nel corso dell’indagine scientifica.
Lasciate alle spalle le infondate perplessità sul rapporto fenicottero-linguistica romanza, si può saltare a piè pari l’eventuale ostacolo della definizione che apre l’introduzione: «Se questo lavoro è tendenzialmente e basilarmente una monografia sui nomi del fenicottero, v’è da aggiungere che esso appartiene al ben noto genere saggistico delle monografie onomasiologiche». Perché, dopo aver reso omaggio agli ovvii doveri accademici di una docente dell’università, del volume si può dire che è interessante e che va letto. Ricco di informazioni e curiosità, di documentazione e di stimoli, di riferimenti scientifici e letterari, geografici e storici, non può essere ridotto alle quattro battute di una sintesi che speri di segnalarne livello e spessore. Si può al massimo tentare la strada di qualche accenno.
Per esempio, i nomi nella lingua sarda. Che sono due – ci dice Marinella Lörinczi – e sono attestati a partire dal settecento: mangòni, tipico del Cagliaritano, e gent’arrubia, tipico dell’Oristanese. Con una curiosità: Max Leopold Wagner fornisce anche le forme logudoresi, «ma senza porsi il problema – avverte l’autrice – che nelle zone di parlata non campidanese il fenicottero è al massimo accidentale o disperso».


torna su


Recensione al volume:
Giuliano Procacci, La memoria controversa. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia


Il Riformista
29 maggio 2003

DATEMI UN LIBRO DI TESTO 
E VI FARÒ UNA NAZIONE

…Nel paese leader della modernità, nella società americana, i movimenti degli anni ’60 hanno preteso dagli studi storici il riconoscimento di un posto per le donne, i neri, gli omosessuali…

Revisioni. «La memoria controversa»
indaga sulle storiografie pilotate

Il primo impatto degli esseri umani scolarizzati con la storia avviene, nella stragrande maggioranza dei casi, attraverso i manuali scolastici.Importante è quindi la loro responsabilità nella definizione e ridefinizione del sentimento e dell’identità nazionale. Sui manuali scolastici si appuntano, perciò, attenzioni e forme di controllo, variabili a seconda della struttura politica dei singoli stati, o con il monopolio delle autorità statali, o con gli organi collegiali della scuola. Giuliano Procacci con La memoria controversa, edito da AM&D, suggerisce di paragonare l’indagine sulla manualistica storica alla deduzione di quel pellegrino che veda la sola cupola di San Pietro poggiando l’occhio sul buco della serratura del cancello del giardino prospiciente la villa dei Cavalieri di Malta sull’Aventino. Da questo particolare egli capirà di essere a Roma… Nel paese leader della modernità, nella società americana, i movimenti degli anni ’60 hanno preteso dagli studi storici il riconoscimento di un posto per le donne, i neri, gli omosessuali; una storia multiculturalista rispetto alla quale le vecchie formule del melting pot e l’ex pluribus unum risultavano inadeguate. Con eccessi di senso di colpa a volte esilaranti come un Beethoven afroeuropeo o un Napoleone in atto di sparare al naso camuso della sfinge per nasconderne l’identità africana. E così agli inizi degli anni ’90 la manualistica storica americana appariva roba da Disuniting America. Continua, intanto, il dibattito tra i sostenitori di un insegnamento mnemonico, date, fatti ecc. di stampo tradizionale, e quanti, gli innovatori, insistono sulla necessità di insegnare a pensare storicamente e criticamente. In Italia? Echi del dibattito.


torna su


Corriere della sera
19 giugno 2003
Rubrica: Sette - numero 24/25

L’INSOSTENIBLIE LEGGEREZZA DEI MANUALI

E.M.

Libri che passano velocemente dagli altari alla polvere? Nulla in confronto a quel che succede ai manuali di storia di molti Paesi. Giuliano Procacci lo illustra in La memoria controversa – Revisionismi nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, uscito da AM&D. Ogni certezza apparentemente acquisita può essere stravolta. I palestinesi si considerano «unici» anche rispetto ai confratelli arabi. In alcuni testi giapponesi, il secondo conflitto rientra in una «grande guerra per l’Asia orientale» vinta dai nipponici perché le potenze coloniali hanno abbandonato i loro possessi. In India, l’ultimo fondamentalismo hindu se la prende anche con Gandhi. Per gran parte dell’umanità il manuale resta la sola occasione di contatto con la storia. Ovvio che sia anche il più sottoposto a condizionamenti politici. 
Obiettivo perenne è la costruzione dell’identità nazionale. Negli Stati dell’ex blocco orientale, derivano acrobazie estreme. Dai manuali sovietici, l’Ucraina indipendente si emancipa drasticamente: i soldati ucraini che combattono con l’armata rossa o coi collaborazionisti di Vlassov sono patrioti allo stesso titolo. Testi serbi e croati si rinfacciano la responsabilità dei massacri durante la seconda guerra mondiale, con spreco di aggettivi come «incivili» e «barbari»: «La logica», nota Procacci «essendo quella dell’identificazione del vicino con il nemico». I problemi, comunque, non toccano solo Paesi appena usciti da traumi dittatoriali o di recente riconoscimento statuale. Il sistema educativo inglese si caratterizzava, fino al 1988, per l’assenza di ogni programmazione nazionale. Allora è stato introdotto il National curriculum. Resistenze a non finire: «L’idea che l’insegnamento della storia britannica spetti al governo del giorno è e dovrebbe essere particolarmente ripugnante», ha scritto il Times Literary Supplement. E gli americani si sono incagliati quando hanno tentato di introdurre gli «historical standards». Passare dal «melting pot» alla «salad bowl» conservando il principio dell’«epluribus unum» ha prodotto infinite riunioni senza raggiungere una formula convincente per tutti gli Stati dell’Unione.


torna su


L'Unità
23 giugno 2003
Rubrica: Orizzonti “idee-libri-dibattito”

LA STORIA SCRITTA. E RISCRITTA

di Adriano Guerra

Prima sorpresa: Procacci «topo di internet». Il suo ultimo libro è stato sostanzialmente costruito su fonti reperite tramite Internet, nel senso che senza l’accesso ai siti Web, con la vecchia tecnica del «topo di biblioteca», e di un «topo di biblioteca» poliglotta, un’opera come questa non avrebbe potuto neppure essere pensata. Internet come la «biblioteca di Alessandria» dunque. Non c’è male per uno storico nato ad Assisi settantasette anni oro sono.
Seconda, ma questa volta relativa, sorpresa: il libro non è soltanto una ricerca sui manuali di storia di (quasi) tutto il mondo, ma un intervento sui punti cruciali del dibattito politico-culturale in corso: il revisionismo, il nazionalismo, il fondamentalismo, l’uso politico della storia, il ruolo della memoria. Dopo aver per qualche tempo passeggiato un poco ai margini – dopo la «Storia del XX secolo» il Nostro si è occupato, come si sa, della madonna di Loreto e della disfida di Barletta stupendo e anche allarmando un poco quanti si attendevano da lui una risposta «italiana» all’ondata dei Furet, dei Nolte, giù giù sino ai curatori del «libro nero», Procacci dice la sua insomma su un gruppo di questioni tra le più aperte e controverse di oggi.
E lo fa guardando le cose da un punto apparentemente periferico e defilato, da un «buco della serratura», come può essere il cancello del giardino dei cavalieri di Malta sull’Aventino dal quale, con un’occhiata distratta si può vedere – ci dice – soltanto la cupola di San Pietro. La cupola e nient’altro. Ma quante cose si possono indovinare guardando a quel tetto con occhi curiosi e sapienti… (Vien da pensare che forse può essere il caso di tornare a rileggere anche la pagine sulla «madonna che vola» e su quel che avvenne quel giorno a Barletta. Forse anche lì si parla d’altro).
Ma veniamo al libro di oggi. I manuali di storia dunque, e con essi i criteri sui quali costruirli. Criteri che possono essere, e di volta in volta sono, il risultato della scelta di un potere assoluto, di un vincitore (lo Stato, una forza politica o sociale, un’etnia, una religione) di una cultura egemone, di un dibattito democratico, di un compromesso fra le parti. L’importanza dei manuali di storia sta nel fatto che essi «sono il tramite attraverso il quale tutti gli esseri umani scolarizzati hanno il loro primo» – e spesso fondamentale – «impatto con la storia», e dunque contribuiscono «in maniera non irrilevante alla formazione del cittadino» e della identità nazionale.
Ecco: l’identità nazionale oggi. La questione messa a fuoco guardando dallo spioncino dei manuali sta qui.La prima cosa che ci dice Procacci è che davvero «revisionismo» non è una parolaccia e che dunque è sacrosanta la battaglia di quanti invitano a non confonderlo col «negazionismo» o con un altro modo per dire cultura di destra. Revisionismo è parola neutra ed è del tutto legittimo oltreché naturale dunque che in tutti i paesi ci siano di continuo forze politiche, sociali e culturali che tendono a respingere certe letture del passato o aspetti di esse, e a proporne nuove.
Se con questa ottica si guarda al mondo di oggi il fenomeno più macroscopico che viene alla luce è quello dello straordinario affollarsi – nello stesso momento in cui masse enormi di uomini si spostano dalle aree povere del Sud verso le aree ricche, mettendo in crisi il vecchio «Stato nazione» – di spinte verso la fondazione o la rifondazione di nuovi Stati, e dunque di nuove identità nazionali. Il fenomeno è grandioso e, proprio perché i manuali di storia sono veicoli fondamentali per costruire un’identità nazionale, forse mai come in questo periodo gli autori dei manuali, e i loro ispiratori, critici o controllori, hanno avuto tanto lavoro. Si pensi ai paesi africani la cui storia, scritta dai colonizzatori bianchi non era altro spesso che una parte della storia dell’impero (tedesco e poi inglese, francese, belga, italiano, portoghese) e che sono ora impegnati a cercare nel lontano passato il filo rosso che porta agli attuali Stati indipendenti.
E ancora si pensi alla Ucraina, alla Germania, alla Moldavia, alla Bielorussia, all’America e agli alti Stati nati con la dissoluzione, con l’Urss, dell’impero russo. Del tutto naturale è che oggi nelle scuole di questi paesi si guardi in modo diverso – rispetto ai manuali sovietici nei quali si inneggiava al fraterno legame che univa tutti i cento popoli dell’Urss «attorno al loro fratello maggiore, il popolo russo» – alle battaglie che hanno permesso agli zar di annettere alla Russia immensi territori.
Questa ricerca delle radici è spesso deformata – documenta Procacci – da sfrenati nazionalismi e da assurde invenzioni. Ecco i manuali serbi e croati che, ignorando ciascuno le vicende dell’altro, esaltano il ruolo della sconfitta contro gli invasori ottomani, di Kosovopolje (1389), i primi, e di Krbavskopolje (1493), i secondi, o presentano l’attenzione di Sarajevo, Gavrilo Princip, ora come un eroe, i primi, e ora come un terrorista, i secondi. Tra le aberrazioni che è possibile trovare nei vari testi alcune lasciano davvero – come si dice – senza parole: che dire dell’autore belga di un testo diffuso nel Congo nel quale si parla degli indigeni come di appartenenti ad una razza inferiore perché colpiti dalla biblica maledizione di Cam? O degli storici afrocentristi americani secondo i quali Beethoven sarebbe stato un afroeuropeo e Napoleone avrebbe ordinato di far fuoco sulla Sfringe per eliminare i tratti africani?
Quando poi il nazionalismo più sfrenato si unisce al fondamentalismo religioso i risultati sono disastrosi come si vede nelle pagine dedicate nel libro ai testi hindu e musulmani.
Contro nazionalismi Procacci è spietato. I diritti delle «piccole patrie», quelle, per usare le parole di Hobsbawm, delle «taglie minime», non hanno certamente in lui un difensore. E qui potremmo trovarci di fronte semplicemente ad una vecchia e radicata convinzione che assegna – a parer mio troppo facilmente – alla «destra» politico-culturale il compito di salvaguardare l’identità dei piccoli popoli. Il libro di Procacci entra però nel vivo della discussione sollecitando domande e chiarimenti, quando la polemica viene rivolta contro i nazionalismi, di piccola come di media «taglia», che potremmo definire post imperiali. Colpiscono nel libro gli elogi al ritorno in auge del panslavismo nella Bielorussia contrapposti alle parallele ricerche in Ucraina ispirate all’idea della «ukrainità».
Certo quel che si può leggere in alcuni manuali editi a Kiev nei quali ad esempio guardando alla seconda guerra mondiale si mette sullo stesso piano il contributo dato dagli ucraini alla sconfitta di Hitler e, sia pur omettendo di parlare dei collaborazionisti di Vlasov, le lotte condotte da essi condotte nel dopoguerra, e per lunghi anni, contro i sovietici, per «recuperare l’indipendenza statale», possono apparire aberranti. Ma non si può negare che qui si è di fronte ad una tragedia vera alla cui base c’è anche, anzi soprattutto, un’altra tragedia, quella nata nel momento in cui nell’Unione sovietica la linea di Lenin della «ukrainizzazione dell’Ukraina» è stata fatta saltare imponendo il potere di Mosca. E quel che si è detto per l’Ucraina vale per le repubbliche baltiche, che per quelle caucasiche e per quelle dell’Asia centrale. Ma dando addosso al nazionalismo e al patriottismo sciovinista non si può dimenticare che oltre a quello nato per la conquista dell’indipendenza c’era, e in parte c’è ancora – si pensi alla guerra coloniale in corso nella Cecenia – il nazionalismo e il patriottismo di chi nega ad altri il diritto all’indipendenza. Non si può insomma mettere sullo stesso piano il nazionalismo di Milosevic e quello degli sloveni, dei croati, dei bosniaci e degli albanesi del Kossovo. Piuttosto è giusto dire – e qui Procacci ha certamente ragione – che l’odierno fiorire di «stati nazione» e di spinte nazionalistiche su base etnica e fondamentalistico-religiosa nasce in contrasto da una parte con le parallele spinte all’aggregazione che nascono su basi nuove, perché senza «paese guida» o obiettivi imperialistici, come è il caso del processo di unificazione europea, dall’altra con le politiche dirette a costruire nuove identità nazionali non più sull’omogeneità etnica o religiosa ma sull’esigenza di tener conto nelle nostre società sempre più multietniche, senza estremismi e visioni razzistiche, dei diritti di tutti i cittadini, basando nel contempo le ragioni dello «stare insieme» sui nuovi valori di libertà.
È attorno a queste questioni che, per la presenza di un agguerrito fronte multuculturalistica si discute soprattutto negli Stati uniti. E forse le pagine dedicate da Procacci al dibattito americano sono le più interessanti per capire anche molte cose di casa nostra, e non solo di casa nostra. In un mondo ove il sorgere di nuovi Stati e insieme il diffondersi delle popolazioni al di là dei confini dei vecchi Stati, creano per la comunità internazionale problemi gravi – si pensi alle «guerre dimenticate» dell’Africa e al terrorismo dei fondamentalisti islamici – che non possono certo essere risolti con le armi o con gli abbordaggi.


torna su


Repubblica
11 dicembre 2003
Rubrica: Cultura

Un convegno sui libri di testo. Intervista a Giuliano Procacci

LE MANI SULLA STORIA

I GOVERNI DI TUTTO IL MONDO CERCANO DI INFLUENZARE I MANUALI
IN MODO PIÙ O MENO PESANTE. SI PRIVILEGIA UNA VISIONE NAZIONALE 
PIUTTOSTO CHE GLOBALE E SPESSO SI CENSURA IL PASSATO PROSSIMO

di Simonetta Fiori

Roma. «Non c’è governo al mondo che tralasci di influenzare i manuali scolastici», dice Giuliano Procacci, figura eminente della storiografia contemporanea che da qualche anno segue con attenzione “la memoria controversa” espressa ovunque dai libri di testo, tra revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi. Al tema ha dedicato recentemente una serie di lezioni all’Università di Cagliari – ora raccolte nel volumetto dell’Editore sardo AM&D, La Memoria controversa (pagg. 150, E. 20, e-mail edizioniamed@tuttopmi.it) – e sempre sull’argomento s’appresta a inaugurare oggi a Roma il convegno Insegnare la Storia in un mondo globale, promosso dal Gramsci al Macro, il Museo d’arte contemporanea (vedi il box qui sotto). «Ovunque si ripropone lo stesso problema, ossia il rapporto tra identità nazionale e globalizzazione», spiega lo studioso nella sua bella casa in un vicolo stretto del centro storico. «I manuali risentono del modo in cui i diversi governi nazionali interpretano questo confronto. O si prende atto che il mondo è un vestito d’Arlecchino in cui c’è tutto, dunque ci si affaccia sulla diversità con spirito di tolleranza, oppure di chiude la finestra e ci si concentra sulla propria identità. Ed è quest’ultimo, con modalità differenti a seconda del grado di democrazia, l’atteggiamento prevalente: nell’Europa dell’Est e in quella Occidentale, nei paesi islamici e negli Stati Uniti, in Giappone, in India, in Pakistan».
Un argomento, quello dei manuali di storia, soltanto apparentemente asettico. Perché in realtà, attraverso i libri di testo, passa il nodo incandescente dei rapporti tra storia e politica, in Italia quanto mai attuale. Non è un caso che, dopo quasi mezzo secolo di quiete democristiana – in cui testi di diversa ispirazione, cattolica, liberale, marxista, pacificamente convivevano –, sia esploso negli anni Novanta, il fervore revisionistico della destra. Con nostalgia da Minculpo come quelle manifestate da Francesco Storace, che qualche anno fa minacciò l’epurazione dei manuali marxisti. «Più che il revisionismo sciatto dal Governatore del Lazio», dice Procacci, «e più delle sparate folcloristiche di Bossi, ipnotizzato da una Padania inventata, mi preoccupano certe chiusure espresse da Rocco Buttiglione. Egli ha criticato nei manuali “l’approccio mondialista”, mentre a suo giudizio sarebbe necessario che i giovani studiassero non la storia universale, ma innanzi tutto quella del loro paese.
Una chiusura che accomuna paesi tra loro molto diversi.
«Si, una tendenza che oggi si mostra prevalente ovunque, e soprattutto in quegli stati di recente formazione o di recente conquista democratica, dove più forte è avvertita la necessità di offrire una propria carta d’identità. Talvolta si cerca di raggiungere una mediazione: negli stati dell’ex blocco sovietico, ad esempio, ad alcuni manuali di “Storia patria” si affiancano altri di “Storia dei paesi stranieri”, entrambi discipline di nuovo conio”.
Mentre a Mosca prevale l’interpretazione continuista della grande Russia.
«Da Ivan il Terribile fino a Putting, passando per Pietro il Grande, Caterina II e le due grandi guerre patriottiche: contro Napoleone e contro Hitler».
Talvolta s’assiste all’appropriazione di alberi genealogici altrui.
«È il caso della Macedonia, uno stato oggi abitato da popolazioni di lingua slava ed albanese, che rivendica la discendenza da Alessandro Magno. Ma i greci mugugnano».
A proposito di Grecia, colpisce che ancora oggi esistano i manuali di Stato, una forma estrema di controllo da parte del potere politico.
«Sì, con i risultati singolari: s’è dovuto attendere gli anni Ottanta (e un governo socialista) perché in qualche libro di testo si facesse menzione della guerra civile che ha lacerato il paese all’indomani della seconda guerra mondiale. Prima il Black out era totale».
Questo è un altro problema diffuso: i governi tendono a cancellare o a edulcorare le pagine più oscure del passato più recente.
«Al culto del passato remoto spesso s’accompagna il silenzio sul passato prossimo. Accade così che in un recente manuale serbo non figuri il nome di Milosevic, e in un manuale filippino si può leggere una ricostruzione benevola della dittatura di Marcos».
La questione si complica nei paesi afflitti dal fondamentalismo.
«In India sempre più l’identità nazionale tende a identificarsi con quella induista, con conseguenze storiografiche assai rilevanti: viene fortemente ridimensionato il ruolo di Nehru e in taluni casi perfino la figura di Gandhi, cui si rimprovera un’eccessiva condiscendenza nei confronti dei musulmani.
D’altro canto in Pakistan è quasi surreale l’approdo del revisionismo islamico.
«Nei manuali pakistani l’identità di quel paese viene fatta coincidere con la sua islamizzazione. Il risultato è che, prima del VII secolo dopo Cristo, non c’è storia. Non a caso uno studioso pakistano, K.K Aziz, ha intitolato una ricerca sui libri di testo L’assassinio della storia. Lo stesso accade nei manuali sudanesi, in cui non si fa più cenno alla civiltà nubiana, o in quelli libanesi in cui si parla sempre meno dei fenici. Al limite di questa logica perversa c’è la distruzione dei templi buddhisti da parte dei talebani afgani».
A questo proposito non si può omettere forse l’episodio più paradossale.
«Sì, quella dei manuali dei talebani è una vicenda davvero sconcertante. Solo di recente s’è scoperto che i loro libri di testo venivano confezionati, in funzione antisovietica, dagli americani. Un problema di matematica era così formulato: Se un talebano è a venti metri da un russo, e con la pistola esplode un proiettile che corre a una certa velocità, quanto tempo impiega la pallottola per impallinare il nemico? Questa l’hanno pensata in un’Università del Nebraska…».
Paradossale è anche la vague revisionista che ha invaso il Giappone. Dai nuovi manuali, d’ispirazione governativa, si ricava che in sostanza furono loro a vincere la II guerra mondiale.
«In un certo senso è l’interpretazione “orgogliosa” che s’oppone a quella “masochista” invalsa fino agli anni Novanta. In sintesi: il conflitto mondiale viene presentato come la guerra per la grande Asia orientale, una sorta di guerra di liberazione dal dominio straniero, inglese in India, francese in Indocina, olandese in Indonesia e americano nelle Filippine. Dal momento che tutti i paesi asiatici hanno raggiunto l’indipendenza, i manuali giapponesi ne ricavano che il loro paese è il vero vincitore».
La questione è diventata un caso diplomatico.
«Sostenuta dal primo ministro Koizumi, la rilettura non è piaciuta a cinesi e coreani del sud, i quali hanno protestato nelle sedi ufficiali. La manualistica, come vede, può avere ripercussioni internazionali».
Colpisce, nella sua carrellata, che anche nei paesi di più robusta tradizione democratica si ponga sui manuali la necessità d’un controllo statale.
«Sì , in Inghilterra è nato recentemente un National curriculum, che concilia l’elemento patriottico, – ossia l’esigenza mossa dalla Thatcher di valorizzare la storia inglese, dalla Magna charta alla battaglia di Trafalgar – con l’esigenza pedagogica e democratica di venire incontro alla mutata composizione etnica degli studenti. Un compromesso che invece è fallito negli Stati Uniti, dove l’opinione conservatrice espressa dalla signora Cheney, consorte dell’attuale vicepresidente, ha combattuto gli Historical standards, che sollecitavano una revisione della storia americana nella direzione del multiculturismo». 
Ha vinto anche qui la chiusura nazionalistica.
«Sì, anche se in una forma meno aggressiva rispetto ad altre realtà. Non è diverso da noi: in Europa si cerca di uscire da una sorta di isolazionismo storiografico, ma è processo tormentato. A parte il tentativo di dare vita a un manuale franco-tedesco, un rapporto della fondazione Agnelli dimostra che – rispetto all’apertura verso una comune storia europea – le resistenze sono ancora forti».
Non la preoccupa in Italia l’imposizione rivisionistica sui manuali minacciata dalla destra?
«Ripeto, più di Storace o di Bossi, che per la sua polemica contro l’Unità Nazionale ricorre alla pubblicistica filoborbonica prodotta – ma guarda che paradosso – dai meridionali mi colpisce la posizione di Buttiglione, che critica nei nostri manuali di storia un “astratto cosmopolitismo”. Può far sorridere che in anni passati quella contro il cosmopolitismo sia stata una battaglia mossa da un personaggio non proprio esemplare come Zdanov, ma l’accostamento è davvero improponibile».


torna su


Recensione al volume:
Alessandra Cioppi, Battaglie e protagonisti della Sardegna medioevale

Notiziario del CNR/ISEM n. 31
aprile 2009 

SENZA TITOLO
di Giuseppe Bellini

Con piacere segnalo questo ricco volume di Alessandra Cioppi, valente ricercatrice dell’ISEM di Cagliari, dedicato alle vicende e ai personaggi rilevanti della Sardegna. Devo confessare che, dopo aver letto questo libro, la storia dell’isola nel tempo mi si presenta sotto un aspetto ben diverso dalle poche conoscenze che inevitabilmente, in quanto iberista, possedevo. Di catalani e aragonesi sempre abbiamo sentito parlare, delle contese tra pisani e genovesi pure, di Eleonora D’Arborea ugualmente, e il compianto Alberto Boscolo ne parlava spesso, ma un’indagine sistematica come questa della Cioppi apre prospettive nuove e interessanti, permette di precisare vicende storiche, dominazioni e movimenti d’indipendenza, personaggi che hanno fatto la storia della Sardegna. Una storia tormentata fino all’avvento dei Savoia e anche dopo di essi. Un libro documentato, ma non solo di argomento storico; infatti, anche per chi tratta di letteratura vi sono capitoli di molto interesse, come quelli dedicati alle relazioni di Dante con personaggi dell’epoca, alla loro presenza nella Divina Commedia, ad esempio quel conte Ugolino del quale qui si ripercorre la vicenda e si chiarisce come essa ebbe conclusione. Un libro, quindi, questo della Cioppi, che non interessa solo lo storico ma il letterato e che in ogni modo si legge con piacere e profitto.


torna su


 

 

 

 

 

© AM&D EDIZIONI
Vietata la copia e la distribuzione, anche parziale, senza la previa autorizzazione scritta.