L'Elenco delle recensioni è disposto in ordine alfabetico
per autore
Alessandra Cioppi, Battaglie
e protagonisti nella Sardegna medioevale |
Dal
Mediterraneo agli oceani -
Notiziario del CNR/ISEM n. 31 - aprile 2009
SENZA
TITOLO di Giuseppe
Bellini |
Carlo Figari, Leopoli, il
mistero dell’armata fantasma |
Il
Risveglio - 24 ottobre 1996
Recensione
di Domenica Calza
|
Marinella
Lörinczi, Il
libro del Fenicottero. Immagini della "Gente Rossa" nelle lingue e
nelle arti
|
L’Unione
Sarda - 21 giugno 2003
Scaffale
sardo:
Rubrica di Gianni Filippini |
Alessandra
Guigoni, Alla
scoperta dell'America in Sardegna.
Vegetali americani nell'alimentazione sarda


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Recensione al volume:
Alessandra Guigoni, Alla
scoperta dell'America in Sardegna.
Vegetali americani nell'alimentazione sarda
L’Unione
Sarda
20 gennaio 2011


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Recensione al volume:
Antonio Romagnino, Torri e
mare
La Nuova
9 gennaio 1996
UN LIBERAL,
UN’ISOLA E LA SUA CAPITALE INVISIBILE
La Cagliari di Romagnino
di Leandro Muoni
«E a
dir Sardigna/le lingue lor non si sentono stanche».
Così attesta Dante di Michele Zanche e Frate Gomita nel XXII
dell’Inferno.Davvero non sapremmo catalogare spunti e
pretesti di siffatta passione confabulatoria, ma una cosa è
certa: quest’attaccamento morboso al tema sardo è
riscontrabile ancor oggi nella quasi totalità degli
scrittori isolani. Né da questo punto di vista fa eccezione
il libro di cui ci occuperemo – che però poi si
differenzia dal panorama locale per innumerevoli altri aspetti
– recentemente affidato alle stampe da Antonio Romagnino:
«Torri e Mare», per i tipi dell’editrice
cagliaritana AM&D. Si tratta essenzialmente di un journal
intime, fra il taccuino di lavoro e l’esercizio di stile, il
memoriale e la prosa d’arte, il saggio e il frammento; tutto
giocato sul sentimento dell’appartenenza, anzi sul sentimento
critico dell’appartenenza, se così si
può dire, e sulla linea d’identificazione
dell’intellettuale sardo. Cioè sul contrasto
dialettico fra il dentro e il fuori dell’isola,
immaginosamente riassunti nell’insegnamento simbolico delle
«torri» e del «mare» (simboli
d’alto profilo letterario se mai ce ne furono).
Antonio Romagnino è un «grande vecchio»
(siamo sicuri che l’espressione non gli
dispiacerà) che guarda il mondo dal suo osservatorio con
apertura infinita, e ne scrive secondo l’estro, la logica
interiore, il senso dinamico delle cose. Da questo straordinario
caleidoscopio della ragione risaltano i punti di partenza e di approdo,
che sono poi circolarmente la stessa vicenda mentale della sua
città, Cagliari: una capitale renitente (o recessiva),
neghittosa e semiborghese. Una capitale che non
c’è, ma che si lascia attorno la strana nostalgia
della propria assenza: una calviniana «città
invisibile», poniamo Aglaura, «città
sbiadita, senza carattere, messa lì come viene»,
dove pure ti sorprende talvolta il «sospetto di qualcosa
d’inconfondibile, di raro, magari di magnifico»:
Aglaura, appunto. La passione di Romagnino per la sua malamata
è così gelosa e totale da non ammettere condomini
né compromessi di sorta: egli vuole essere l’unico
e il solo a strapazzarla; non perdona a nessuno di proferire le amare
verità che l’offendono, nemmeno se per
l’avventura si chiami Joseph de Maistre o Carlo Emilio Gadda.
Eppure Romagnino è ancora uno dei pochi capaci di evocare ad
alta voce simili personaggi «scandalosi», a
nominare le loro aspre parole, i vituperi, a trascriverli con
meticoloso diletto di polemista (e al tempo stesso di fine
sadomasochista).
Poiché in fin dei conti il suo punto di vista è
un punto di vista eminentemente urbano, consapevolmente e
orgogliosamente urbano, entro una cultura che fa di tutto, invece, per
non dimenticare neanche per un momento le sue origini rurali e plebee:
perfino carte false. E in effetti ciò che al nostro autore
preme più dolorosamente è proprio la
malasardità, questa puntura persistente e ingravescente che
sta sempre al di qua di ogni distinzione fittizia fra cosmopolitismo di
maniera e regionalismo chiuso. Una malasardità che ti nega
perfino il gusto di godere della stessa «lingua degli
affetti» ceduta senza troppi scrupoli in cambio della
cosiddetta «legalizzazione de sa limba»: imbroglio
orripilante al quale difficilmente abboccherebbero, putacaso, i
«sardi di Lombardia»; e tutti quei sardi che hanno
ancora coscienza di «non essere né migliori
né peggiori degli altri italiani», come rammenta
uno scomodo adagio di un sempre meno frequentato Emilio Lussu.
Ci trovi un’autentica miniera di punti dentro queste pagine,
una miriade di fili disposti sopra questo telaio della memoria e della
riflessione: dal grande «mito sardo» del
D’Annunzio di fine-inizio secolo, il poeta-vate che
più di ogni altro scrittore nazionale ha celebrato la terra
e il cuore della Sardegna, ai miti del più recente
dopoguerra, tutti rigorosamente sardeschi autonomistici e
antropologici: vedi la rinomata (o famigerata) «Vendetta
barbaricina come ordinamento giuridico» di Antonio Pigliaru:
un libro «etnocentrista» che «mi fa
orrore» (così, nelle testuali e quasi inverosimili
parole di Antonio Romagnino).Non è questa evidentemente
l’identità che piace al nostro autore, sardo di
«torri e mare», sardo d’avvistamenti e
planisferi; non è l’«identità
selvaggia» quella che gli si addice, bensì
l’identità della ragione e della coscienza
illuminata e «liberal» (com'egli stesso sottolinea
con un pizzico di civetteria politica): l’identità
che è stata cara a Giaime Pintor e a una certa parte di
Emilio Lussu.
Con questo libro Antonio Romagnino continua la sua confessione critica,
il suo diario in pubblico, senza peli sulla lingua e magari con qualche
sassolino in meno dalle scarpe: sua seconda tappa in sintonia di stile
dopo la «Cronichetta del 1991». Confermandosi
così una delle più vigili coscienze isolane e
soprattutto uno dei più accattivanti e moderni scrittori
della Sardegna, con quella sua acclimatazione insulare del frammento,
che sembra veramente essere la sua «passion
predominante» e, insieme, la sua più convincente
cifra d’autore.

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Recensione al volume:
Luciano Marrocu, Procurad' 'e
moderare. Racconto popolare della rivoluzione sarda
La Nuova
Sardegna
7 maggio 1996
MITO E
STORIA
RIVOLUZIONE IN ABITI SARDI
Il saggio di Luciano
Marrocu
R.C.
Le celebrazioni
del duecentesimo anniversario di quello che si chiama il
«triennio rivoluzionario» sardo si chiudono in
questi giorni con un saldo fortemente attivo, tanti sono stati gli
studi che, a partire da un indimenticato convegno di Quartu e Cagliari
per ricordare la difesa della Sardegna dalla tentata invasione francese
e poi l’insurrezione cagliaritana del 1794 sino al convegno
sassarese di qualche giorno fa su «Patriottismo e
costituzionalismo» in quegli anni 1794-96 (senza dimenticarne
uno, molto interessante, a Bono nel 1989), ci hanno fornito molti nuovi
documenti sul periodo e ricchi stimoli alla riflessione e anche ad una
più attenta rivisitazione di quel periodo e dei suoi
protagonisti, primo fra tutti Giommaria Angioy. Resta un problema, che
è quello di «divulgare» queste
acquisizioni di farle diventare, almeno in Sardegna, conoscenza (se non
senso) comune. Qualcosa cerca di fare la Regione nel quadro delle
celebrazioni della «Die de sa Sardigna»: ma
è ancora troppo poco, a parte le polemiche su una qualche
grossolanità della scelta di destinare a festa del popolo
sardo quella particolare data.
Un simpatico passo in questa direzione ha fatto ora, proprio a
proposito del triennio rivoluzionario, Luciano Marrocu con un libro il
cui titolo “Procurad’ ‘e
moderare”, riprende pari pari il primo verso del famoso
“Innu de su patriottu sardu a sos feudattarios”,
forse scritto proprio in quegli anni (a occhio e croce il 1794-94)
dall’ozierese Francesco Ignazio Mannu. (Pregherei il proto,
come si dice, di fare attenzione ai due apostrofi con cui è
scritto il titolo: che corrispondono alla caduta della
“e” finale di “procurade” e
della “d” iniziale del “de” che
regge l’infinito “moderare”. Precisazione
necessaria, anche perché, a quanto pare, sui due apostrofi
già sono iniziate alcune aspre dispute filologiche).
Che cosa vuole essere il libro (edito dalla cagliaritana AM&D)
lo dice bene il sottotitolo: «Racconto popolare della
Rivoluzione sarda 1793-1796».Dove il triennio è
diventato un quadriennio che cominci addirittura verso la fine del
1792, quando fu annunciata, all’orizzonte della costa
sulcitana, la flotta dell’ammiraglio Truguet mandata a
conquistare la Sardegna per conto della Francia repubblicana. E finisce
anche molto più in là del 1796 perché
la parte finale del libro ha capitoli dedicati all’esilio
parigino di Giommaria Angioy e dei «giacobini» suoi
seguaci, all’autobiografia di Vincenzo Sulis, un altro dei
controversi personaggi di quel tempo di torbidi, e alla
«Storia in cui il Manno ricostruì, in feroce
polemica con i rivoluzionari sardi, quello stesso periodo. La prima
parte del libro è articolata in una ventina di brevi
capitoli, in cui le aggrovigliate vicende di quegli anni tumultuosi
sono ricostruite seguendo con attenzione il loro dipanarsi di mese in
mese, di settimana in settimana o, nei momenti più caldi, di
giorno in giorno.
Praticamente, Marrocu ripercorre la “Storia” del
Manno (ma chiunque voglia raccontare quei fatti difficilmente potrebbe
prescinderne) naturalmente, ricostruendo vicende individuali e di massa
da una prospettiva totalmente antagonista rispetto a quella del barone
algherese. Con una seconda preoccupazione, accanto a quella della
corretta interpretazione storiografica: di mantenersi fedele a una
scrittura agevole, chiara, intrigante. Marrocu scrive così
anche quando scrive da storico «serio»: basta
citare il suo bel libro sul “Salotto della signora Webb
(Editori Riuniti, 1992), che è uno straordinario spaccato
del socialismo inglese nella prima metà del Novecento. La
facilità della scrittura diventa naturalmente un obbligo
quando ci si propone di fare un lavoro di divulgazione. Marrocu vi
riesce bene, senza rinunciare alla puntualità delle
informazioni e delle considerazioni.
In apertura del libro ha premesso come fatto altre volte, una raffinata
epigrafe, stavolta citando da Henry James: «Recuperare quanto
è perduto è comunque assai simile a passare le
linee del nemico per riprendersi i morti e dar loro
sepoltura»..
Qui, come hanno fatto in questi ultimi anni tanti altri storici sardi
(a cominciare dall’indimenticato Girolamo Sotgiu, che proprio
agli inizi della «Sarda Rivoluzione» aveva dedicato
alcuni suoi saggi, prima di condensare il senso dell’intero
periodo nella “Storia della Sardegna sabauda”,
edito da Laterza nel 1984), Marrocu non si è limitato, in
verità, a passare le linee nemiche
(l’interpretazione «moderata» di quegli
eventi?) e a riprendersi i morti: non li ha seppelliti, anzi li ha
fatti rivivere come sempre (cerca di fare) lo storico, ma in questo
caso (cioè, in questo «racconto
popolare») con un pizzico di verve e di umori di
più.
In chiusura del volume, il testo
dell’“Inno” antifeudale: un autentico
piccolo capolavoro in 47 ottave, attraversato da una ironia forte e
salda in cui la polemica di tipo giuridico si mescola con pezzi di
satira alla Parini e improvvise accensioni emozionanti come i
fiammeggianti appelli della «Marsellaise».

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Recensione al volume:
Pinuccia F. Simbula, Corsari
e pirati nei mari di Sardegna
La Nuova
Sardegna
4 giugno 1996
CORSARI DI
SARDEGNA
L’ASSEDIO NAVALE ARAGONESE CONTRO ARBOREA
Le edizioni AM&D
pubblicano una ricerca di Pinuccia Simbula
di Luciano Marrocu
Lungo i circa
cent’anni che durò la conquista della Sardegna da
parte dei catalano-aragonesi, la guerra di corsa costituisce un
fenomeno di grande importanza. Fu infatti grazie ai corsari che agivano
in nome della Corona d’Aragona che Cagliari e Alghero
(rimaste per un certo periodo gli unici avamposti iberici
nell’isola) poterono approvvigionarsi. E fu anche attraverso
la guerra di corsa che le armi aragonesi riuscirono a mantenere una
loro presenza nell’isola, quando nella seconda
metà del XIV secolo, risorse ed entusiasmi per la conquista
sarda sembrarono per lunghi periodi venir meno.
Su questa vicenda poco o nulla conosciuta, ci offre ora una bella e
importante ricerca Pinuccia Simbula, una giovane storica attiva
nell’ambito dell’istituto sui rapporti
italo-iberici.
Il suo «Corsari e pirati nei mari di Sardegna»
(pubblicato, oltre che dall’istituto menzionato, dal
Consiglio Nazionale delle Ricerche e la cui realizzazione editoriale si
deve alla cagliaritana AM&D) si muove su uno scenario molto
ampio: non solo i mari sardi in senso stretto, ma anche acque e porti
catalani, provenzali, siciliani. Quanto al periodo trattato, Simbula
sonda con particolare attenzione gli ultimi quarant’anni del
XIV secolo.
Anche se risulta particolarmente difficile leggere in una chiave
unitaria questa fase così intricata del confronto tra il
giudicato d’Arborea e la Corona di Aragona, sono gli anni
comunque in cui la politica sarda di Pietro IV, segna il passo. Dopo
che nel 1354 il re d’Aragona alla testa delle sue truppe,
è entrato trionfalmente ad Alghero e dopo che
l’anno successivo si è spinto sino a Cagliari, a
partire dagli anni Sessanta le cose per i catalano-aragonesi hanno
cominciato a mettersi male. L’apertura del fronte arborense
– con l’offensiva prima di Mariano IV e, dopo la
morte di quest’ultimo, di Ugone III, suo successore al trono
giudicale – provoca alla Corona d’Aragona profonde
difficoltà, che nascono tra l’altro dal fatto che
essa è impegnata in uno scacchiere molto ampio.
È in questo contesto che Pinuccia Simbula colloca la sua
analisi della «guerra in corsa» che si svolge nei
mari di Sardegna e che secondo quanto scrive, divenne «lo
strumento militare meno costoso per le deboli finanze della
Corona». In mancanza di navi da guerra regolari (quelle che
la Corona ha sono impegnate su altri fronti: nuove non si hanno i
denari per armarne) ci si affida ai corsari per tentare una sorta di
blocco navale sui porti del giudicato d’Arborea. In alcuni
momenti poi, razziare e dirottare le navi di passaggio appare come
l’unico modo per approvvigionare i territori regi. Lettere di
corsa vengono così concesse a uomini come Arnau Aymar,
maiorchino, che tra il 1383 e il 1385, al comando della galea
«Sant Salvator» e «Santa
Clara», pattuglia le acque sarde.
Quello stipulato tra il sovrano catalano-aragonese e Aymar è
un vero e proprio contratto, attraverso cui il corsaro mette a
disposizione la sua galea, lasciando a carico della Corona le spese di
armamento dell’imbarcazione. Spetta ad Aymar, in cambio delle
sue prestazioni, il dieci per cento del bottino, a cui si aggiunge un
regolare stipendio mensile. A conti fatti – i bottini,
spesso, sono tutt’altro che esaltanti – la guerra
di corsa ha un costo per la Corona, ma si tratta di somme largamente
inferiori a ciò che comporterebbe il mantenimento di una
flotta regolare.
La campagna di Arnau Mayor, a cui Pinuccia Simbula dedica una
ricostruzione tanto dettagliata quanto suggestiva, rivela aspetti
importanti della guerra da corsa condotta nei mari sardi al servizio
del re d’Aragona. Ci dice delle prede (sorprese il
più delle volte all’uscita dei porti arborensi),
dei bottini (grano, pelli e vino, molto spesso, ma anche panni e altri
manufatti), della vendita delle merci razziate sulle piazze di Cagliari
e di Alghero. Ci dice inoltre della occhiuta presenza a bordo del
clavario, il funzionario regio incaricato di controllare costi e
ricavi.Ci dice infine di come risulti difficile alla Corona
disciplinare la foga e la rapacità di Aymar, che non si fa
scrupolo, laddove gli si presenti l’occasione, di assaltare
navigli di paesi neutrali o addirittura imbarcazioni fornite dai
governatori catalani di regolari permessi di navigazione e di commercio.
Ci sono episodi insomma in cui Aymar si comporta come un vero e proprio
pirata ed è in questi momenti che la politica
«corsara» della Corona mostra
un’insanabile contraddizione. Se da una parte uomini come
Arnau Aymar erano indispensabili al re d’Aragona per condurre
la guerra contro il giudicato d’Arborea, dall’altra
la loro anarchica attività rappresentava una costante
minaccia nei confronti dei traffici commerciali di quella parte del
Mediterraneo.
«La soluzione del problema – scrive al riguardo
Pinuccia Simbula – era alla radice: eliminare la guerra con
l’Arborea». Cosa che in effetti avvenne nei decenni
successivi, quando, con il compimento della conquista catalana
dell’isola, «corsa e pirateria cristiana sarebbero
rientrate, almeno nei mari sardi nei limiti della
tollerabilità».

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Recensione al volume:
Carlo Figari, Leopoli, il
mistero dell'armata fantasma
Il Risveglio
24 ottobre 1996
di Domenica Calza
Tra i tanti
“buchi neri” che a distanza di
cinquant’anni ancora restano nella storia della Seconda
guerra mondiale, ed in particolare in quella della campagna di Russia,
ve n’è uno che ancora oggi sconcerta ed affascina
per quell’aria di mistero quasi impenetrabile che lo
circonda. È il caso dell’”Armata
fantasma”, cioè di quei duemila soldati italiani
che secondo alcune testimonianze, sarebbero stati uccisi dai nazisti a
Leopoli nell’arco di tempo che va dall’estate 1943
ai primi mesi del 1944. L’ultimo, in ordine di tempo, ad
occuparsi della vicenda è stato un giornalista
dell’Unione Sarda, Carlo Figari, che raccogliendo
testimonianze dirette e materiale documentaristico ha pubblicato
recentemente un libro dal titolo “Leopoli – il
mistero dell’armata fantasma”. Il “caso
Leopoli” venne alla ribalta delle cronache, per la prima
volta, quando un giovane giornalista italiano inviato del settimanale
Epoca realizzò un reportage sulla presunta strage di soldati
italiani dell’Armir. Il giovane inviato al suo primo scoop
giornalistico era Jas Gawronski, oggi europarlamentare, editorialista
ed affermato giornalista. Una commissione parlamentare di indagine si
occupò del caso tra il 1987 e il 1988 e giunse alla
conclusione che nessun eccidio di militari era stato commesso nella
città dell’Ucraina occidentale indicata come luogo
della strage, anzi la commissione sottolineò che tra
l’estate 1943 e i primi mesi del 1944 a Leopoli non vi era
più alcun soldato italiano e che se eccidio c’era
stato esso non aveva riguardato i soldati dell’Armir. Il
“caso Leopoli” sembrava dunque destinato ad essere
archiviato insieme a tanti altri rimasti irrisolti, ma alcuni storici e
scrittori, come Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern e Lucio Ceva, che pure
avevano fatto parte della Commissione parlamentare, portarono avanti
per conto loro una specie di contro-indagine e giunsero alla
conclusione che, dalle testimonianze raccolte e dalla documentazione
disponibile, non si poteva escludere che la strage di Leopoli non si
fosse verificata. E la tesi di Revelli, Stern e Ceva fu avvalorata
dalle affermazioni del Procuratore militare della Procura di Roma
Giuseppe Scandurra che nel 1991, al ritorno da un sopralluogo a
Leopoli, affermò: “Adesso abbiamo
un’idea chiara delle dimensioni della tragedia di Leopoli.
Gli italiani non furono che una frazione delle migliaia di persone qui
fucilate ed uccise”, confermando così le notizie
già pubblicate dalla Pravda sin dal 1944 che parlavano di un
elevato numero di soldati dell’Armir massacrati dai nazisti
in quella città e la testimonianza di una donna polacca che
al processo di Norimberga aveva testimoniato parlando di un eccidio di
italiani a Leopoli, poco dopo la caduta di Mussolini. Alla vicenda
venne dedicato anche un libro di uno storico polacco, Jacek Wilczur,
pubblicato e tradotto in italiano nel 1964, che passò quasi
sotto silenzio. Solo nel 1987, quando l’agenzia di stampa
sovietica rilanciò la questione con la rivelazione che un
gruppo di studenti ucraini durante una ricerca sugli avvenimenti
dell’ultima guerra nella loro città, avevano
scoperto che i resti di duemila soldati italiani erano stati rinvenuti
nella zona. Secondo la Tass la strage sarebbe avvenuta a causa del
fatto che gli italiani si erano rifiutati di trasferirsi
all’interno del territorio russo per continuare a combattere
una guerra che era ormai perduta. La commissione ministeriale
incaricata non ritenne decisive neanche le affermazioni della Tass e
dopo qualche tempo il “caso Leopoli”
tornò a cadere nell’oblio. In quel contesto di
mistero e di reticenze un giornalista del quotidiano
“L’Unione Sarda”, Carlo Figari, che
casualmente aveva incontrato una donna polacca originaria proprio di
Leopoli, raccolse una importante testimonianza diretta
sull’eccidio dei duemila italiani. Questa ebrea polacca di
nome Nina, che da anni vive tra noi nel ciriacese con la sua famiglia,
raccontò a Figari la sua storia di bambina scampata
miracolosamente allo sterminio dei suoi familiari, la fuga dalla sua
terra natale e dalla persecuzione nazista, la sua emigrazione negli
Stati Uniti, il matrimonio con un italiano e soprattutto, scavando nel
dolore e nella memoria, narrò al giornalista di essere stata
testimone oculare della tragedia di quei soldati italiani che, secondo
lei, avevano cominciato ad essere uccisi dai nazisti sin dal luglio del
1943, subito dopo la caduta del regime fascista. Dal racconto vivo ed
appassionato di Nina, la bambina ebrea scampata
all’Olocausto, è nato un libro, “un
romanzo-verità”, come lo definisce
l’autore, in cui testimonianze e documentazione raccolta
“vanno viste come un documento storico”.
“L’obiettivo è quello di dare al lettore
gli strumenti per farsi un’idea complessiva e completa della
vicenda tuttora aperta – dice Figari – e ciascuno,
alla fine, trarrà la propria conclusione sulla base di
personali interpretazioni e convincimenti”. Il libro del
giornalista sardo, che verrà presentato venerdì
25 ottobre nel salone consigliare di Palazzo D’Oria,
è una lettura avvincente e drammatica, ricca di spunti di
riflessioni, di documentazione storica e giornalistica su una vicenda
che lascia aperti molti dubbi e perplessità ed è
sicuramente un utile strumento di conoscenza e di approfondimento su un
tema sempre appassionante ed interessante com’è
quello della ricerca della verità storica.

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Recensione al volume:
Gianni Pititu, Sequestri. Il
cielo nascosto
Il Corriere di
Roma
30 novembre 1996
SEQUESTRI:
QUANDO LA SOCIOLOGIA E IL DIRITTO DIVENTANO ROMANZO
Un libro di Gianni Pititu
sui sequestri di persona in Sardegna
di Mario Corda
David Hume
diceva che i libri infarciti di astruserie dovrebbero essere dati alle
fiamme; e, anzi, c’è da pensare ch’egli
tenesse sempre acceso il camino, perché anche allora,
contrariamente a quanto potrebbe credersi, le astruserie dominavano il
panorama culturale. Se però fosse vissuto ai nostri giorni,
in cui l’astruseria è già un pregio, di
fronte all’assoluto grigiore e
all’inutilità di una miriade di libri, talvolta
addirittura apocrifi e in ogni caso selezionati e reclamizzati dai mass
media), avrebbe certamente suggerito qualcosa di meno nobile.
L’abbandono nella discarica dei “rifiuti solidi
urbani”, ad esempio. Credo che in tal modo la pensino anche
due miei autorevoli amici, il poeta Alberto Virgilio e
l’italianista Franco Vitelli, i quali opportunamente si
domandano se valga più la pena di scrivere cose sensate,
visto che il non senso sembra diventato il criterio guida
dell’editoria, addirittura un canone di rigorosa
applicazione. Eppure, in mezzo a tanta mediocrità, in mezzo
a tanto bailamme, talvolta punta un libro di indubbio, indiscutibile
valore che opportunamente ci ricorda due cose. La prima è
che esistono ancora scrittori capaci di imporsi per la bontà
intrinseca delle loro idee, delle qualità comunicative,
delle doti artistiche. La seconda è che esistono ancora
editori capaci di distinguere il vero dal falso e, perciò,
di operare quella rigorosa selezione che è
l’altimetro del livello culturale.
Uno di questi validi libri è sicuramente quello scritto di
recente da Gianni Pititu, intitolato Sequestri – Il cielo
nascosto, edito nella scorsa estate a Cagliari da AM&D e
inserito nella prestigiosa collana i Griot, diretta da Stefano Pira. In
esso l’Autore racconta, previa opportuna, ragionata
meditazione, le drammatiche, tristissime vicende inerenti ai sequestri
di persona avvenuti in Sardegna negli ultimi trent’anni.
Non si tratta di un semplice “saggio”, a cavallo
tra il sociologico e il giuridico, anche se la profondità
dell’indagine orientata in quelle direzioni, non certo
ostentata, traspare in calibrata misura. Si tratta, al contrario, di un
vero e proprio “romanzo” che ancora una volta ha
come protagonista Nuoro, epicentro di quello specialistico banditismo
che affina le tecniche di consumazione di un così orrendo
crimine, ma che pur sempre è un microcosmo esprimente dal
suo interno un’intelligenza e una forza morale che
provvidenzialmente sopravanzano gli aspetti negativi. Una Nuoro tutto
sommato contraddittoria, e nondimeno affascinante, il cui racconto,
all’evidenza, non pare ancora concluso, neppure dopo Grazia
Deledda, Salvatore Satta, Maria Giacobbe, Franco Floris.
È una storia triste, tristissima purtroppo, quella proposta
da Gianni Pititu attraverso la sfilata di una moltitudine di
personaggi: inermi vittime, parenti affranti dal dolore, ingordi
aguzzini, manovali del crimine, intermediari più o meno
abili, sciacalli, poliziotti, carabinieri, giudici. Storia triste e
drammatica, che sottopone alle coscienze le nefandezze di un crimine
contro l’umanità, nel quale si concentra ogni
effetto belluino della cattiveria, perché per
l’ignobile fine di un facile lucro annulla la
libertà fisica e morale della vittima, strumentalizzata nel
modo più atroce l’angoscia e il dolore dei
parenti, condannati a una inumana sofferenza, spesso preludio
all’agonia. Storia che coinvolge tutti, quantomeno
perché la congiunzione del diffuso timore di cadere in
quella rete e del conseguente potenziamento dell’apparato
statuale repressivo non consente ad alcuno di estraniarsi da un
contesto che opprime e nello stesso tempo imprime un indelebile
marchio. Terra di banditi, è stato detto, non sempre a torto.
Gianni Pititu racconta e medita, e tuttavia non esprime un facile
giudizio finale, il quale peraltro non potrebbe non essere di condanna.
Ma da consumato scrittore con alle spalle un’esperienza
giornalistica quarantennale induce il lettore ad esprimere, egli, quel
severo giudizio e, quindi, a rinnegare quell’ancestrale,
deteriore monocultura che, quando viene stretta d’assedio,
tenta addirittura la via della colorazione ideologica; con
l’intento, evidentemente, di instaurare
quell’equivoco clima di non avversione che inevitabilmente
finisce, poi, per tramutarsi in aperta omertà. Ma nel libro
di Gianni Pititu la convinzione (purtroppo di molti) che il crimine sia
possibile strumento più idoneo, il messaggio artistico. Il
crimine è presentato come crimine, orrendo per giunta,
sicché il lettore è portato a distaccarsi
moralmente da esso, a respingere quel tentativo di giustificazione
mascherato da falsa ideologia, a esprimere dall’interno
quella adesione alla legalità che non è un
semplice, puerile (e perciò effimero) “arrivano i
nostri”, ma un necessario aspetto di quel consenso
all’apparato ordinamentale che integra la vera essenza del
diritto, e perciò della pacifica convivenza.
Ho avuto altre volte occasione di esprimere l’idea che
l’adesione alle norme ordinamentali e, perciò,
alla socialità può essere richiesta alla gente
con l’unico strumento a ciò idoneo, il messaggio
artistico, appunto. E la lettura del libro di Gianni Pititu mi conferma
del convincimento che quell’idea merita di essere coltivata.

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Recensione al volume:
AA.VV., Launeddas
L’Ortobene
8 febbraio 1998
UN LIBRO DI
GRANDE VALENZA
di Dolores
Turchi
Attratti dal
fascino di uno strumento arcaico come le launeddas, scrittori e
viaggiatori dell’Ottocento si sono soffermati a descrivere
questo strumento musicale che tante domande suscita in chi ne ascolta
la melodia.
Chi lo inventò? Donde viene? Nacque in Sardegna? Domande che
sono una precisa risposta. La Sardegna lo conobbe senza dubbio in tempi
antichissimi. Lo testimonia innanzi tutto il bronzetto nuragico
itifallico trovato a Ittiri, che rappresenta un suonatore con uno
strumento a tre canne. Ma il suo uso continuò ininterrotto
nel tempo; infatti risulta presente sia nel periodo romano sia in
quello medievale, attraverso la linguistica e l’iconografia.
Pittori e disegnatori del secolo scorso raffigurano i suonatori di
launeddas che accompagnano il ballo sardo o che precedono il corteo
nuziale, segno che allora se ne faceva ancora grande uso sia nelle
feste che nei matrimoni.
Delle launeddas, della loro storia e del loro declino intorno alla
metà di questo secolo, e infine del loro recupero ne parlano
vari autori in un bel libro edito da AM&D e dalla ISRE, dal
titolo “Launeddas”, curato da Giampaolo Lallai.
“Questo libro nasce dall’incontro tra la passione
per la musica popolare isolana e la necessità di studiare
profondamente le launeddas, offrendo ad un largo pubblico una visione
globale su uno strumento che rappresenta una parte fondamentale
dell’universo musicale della Sardegna”, scrivono
nella prefazione Stefano Pira e Michele Ciusa, il primo in
qualità di direttore editoriale dell’AM&D
e il secondo in qualità di presidente dell’ISRE,
l’Ente preposto alla valorizzazione del patrimonio culturale
sardo.
Si tratta di varie ricerche fatte con impegno e serietà e
documentate da un ricco apparato iconografico oltreché da
una vasta bibliografia, senza tralasciare la citazione del fondamentale
lavoro, basato su un’accurata ricerca sul campo che negli
anni Sessanta aveva fatto il danese Weis Bentson, proprio quando era
venuto a mancare un ricambio generazionale tra i cultori di questo
strumento.
Era il tempo in cui le tradizioni venivano viste dagli stessi Sardi
come indice di arretratezza culturale e, volendosi aprire al nuovo, si
buttava a mare tutto ciò che sapeva di vecchio e arretrato.
I modelli d’Oltralpe sembravano più congeniali a
una vita moderna e industrializzata che portava un benessere
più diffuso, associato a un ascolto sempre maggiore dei mass
media, che hanno contribuito efficacemente ad accelerare un certo
processo di omologazione.
Fu allora che anche i suonatori di launeddas si ridussero ad un numero
sempre più esiguo, lasciando il posto ai suonatori di rock e
rischiando l’estinzione totale.
Pochi cultori, i più tenaci, e i meno refrattari alle
insidie dei tempi moderni erano rimasti a garantire la
continuità, per quanto ridotta, di uno strumento votato
inevitabilmente all’estinzione, se negli anni ’80
un nuovo risveglio di coscienza non avesse scosso una parte del popolo
sardo inducendolo a riappropriarsi di quella identità che
andava sempre più perdendo.
Nel recuperare d’insieme alcuni volenterosi si impegnarono
anche nella rivalutazione e valorizzazione delle launeddas, che
sicuramente risultano tra i più arcaici strumenti a fiato
del mondo mediterraneo.
Il libro, che comprende i contributi di ventuno autori, è
diviso in tre parti. Nella prima parte si parla soprattutto del periodo
d’oro delle launeddas e del loro declino, nella seconda dello
strumento e delle sue tecniche di costruzione, nella terza parte delle
sue radici storiche.
Le foto di Nico Selis arricchiscono e completano questo interessante
lavoro che abbina all’aspetto conoscitivo anche una valenza
artistica.

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L’Unione
Sarda
Fino a qualche anno fa, in Sardegna, le launeddas
identificavano un popolo e una storia.
E continuano a farlo, anche ora che vengono ingoiate da contaminazioni
rock e jazz.
La loro storia in un libro e nelle opere di Andrea Bentzon.
Antropologia e magia in un volume della AM&D,
e nelle opere dello studioso danese Andrea Bentzon
di Bachisio
Bandinu
Lo sguardo da
lontano spesso è più acuto e intenso
dell’osservatore da vicino. La Sardegna, vista da fuori,
è stata analizzata, sotto molti aspetti, in maniera
più approfondita rispetto alle indagini degli studiosi
locali. Basti pensare a Wagner per gli studi sulla lingua sarda, a Le
Lannou su pastori e contadini o al Viaggio in Sardegna di La Marmora.
Un tedesco, un piemontese e un francese. Studi molto seri che hanno
saputo leggere in profondità la civiltà sarda
aprendo prospettive di ricerca per latri studiosi. Certo, ci sono stati
anche sguardi superficiali e un po’ di maniera da parte di
viaggiatori che hanno creato per la Sardegna lo stereotipo di isola
selvaggia, di terra vergine e di cultura primitiva.
Un osservatorio attento, finora meno noto eppure di grandissimo
rilievo, è stato Andrea Bentzon, musicista danese, che
venuto in Sardegna alla fine degli anni ’50 si era immerso
nello studio delle launeddas, scrivendo due libri
sull’arcaico e originale strumento. Ragazzo di 17 anni,
appassionato di jazz, è preso da incantamento
nell’ascoltare un suono dal ritmo ammaliante ed enigmatico.
Non si libererà più da questo incantesimo sino
alla morte che lo colse nel pieno delle sue ricerche
all’età di 35 anni.
Libri, lettere, appunti, fotografie testimoniano
l’appassionato studio di un particolare universo musicale
dotato di una specifica identità di ritmo e di melodia.
A questi contributi di scrittura e di fotografia si è ora
aggiunto un materiale filmico di grande rilievo. È merito di
Dante Olianas aver ritrovato negli Archivi Danesi del Folklore a
Copenaghen preziosi filmati e registrazioni che Bentzon raccolse
durante i suoi viaggi in Sardegna tra il 1955 e il 1962.
Così è nata una costruzione filmica, con la regia
di Fiorenzo Serra, e la consulenza dello stesso Olianas,
dell’etnomusicologo Pietro Sassu e del suonatore di launeddas
Aurelio Porcu, dopo un paziente lavoro di montaggio e sincronizzazione
di immagini e suoni.
Così Is Launeddas, la musica dei sardi è il primo
documentario dedicato alla musica sarda. Sono 40 minuti di filmato che
analizzano le launeddas come strumento musicale e come mezzo di
comunicazione sociale. Vengono ripresi suoni, persone, luoghi,
situazioni che danno testimonianza di vita popolare nel lavoro e nella
festa. Sono riprese essenziali, senza un preciso intento di
composizione unitaria che documentasse, in maniera canonica, usi e
costumi della tradizione.
Materiale di ricerca, appunti di lavoro, rappresentazioni destinate ad
elaborazioni successive. E tuttavia per noi oggi vengono ad assumere un
rilevante valore documentario che rappresenta attraverso
l’immagine in movimento importanti aspetti di vita
quotidiana. I vari episodi non hanno una precisa struttura narrativa
perché non c’era la volontà di
documentare qualcosa da trasmettere come universo antropologico di una
civiltà, e tuttavia questa rappresentazione visuale acquista
un grande valore espressivo e mostra una profonda corrispondenza tra
oggetto e segno, tra immagine filmica e realtà
tridimensionale. L’immagine parla per se stessa senza la
preoccupazione ostentativa dello spettacolo.
Andrea Bentzon intraprende un viaggio di iniziazione lungo un percorso
reale e simbolico che va dalla canna del fiume allo strumento musicale.
Alla ricerca di un suono. È il suonatore stesso che va alla
scoperta della canna giusta per misurarne lo spessore, per osservarne
la distanza dei nodi, rispettando il tempo stagionale
dell’inverno e la fase di luna piena.
La magia del suono è ricercata alla sua fonte, nel taglio,
nell’impugnatura, nella stagionatura:
c’è una lettura anticipata dei tratti distintivi
di vibrazioni e sonorità. Arte delle mani e lavoro del
coltello giocano nella prospettiva del suono. Lo strumento lo si
capisce nel farlo, lavorando e provando: ascolto e adattamento, oggetto
costruito per prove ma secondo un’intuizione progettuale e
una sapienza costruttiva.
E poi le accordature fondamentali e l’apprendimento delle
tecniche di respirazione: tenere un flusso d’aria costante
soffiando dentro lo strumento con le guance ed espirando
contemporaneamente con il naso. Ogni strumento è originale,
in piena sintonia con l’identità del suonatore:
per questa magia i movimenti melodici delle launeddas danno al ballo un
carattere maestoso e primitivo.
Merito dello studioso danese è stato quello di aver colto il
rapporto integrale tra strumento, musica, dimensione festiva e contesto
antropologico. Le launeddas infatti non hanno solo un significato
musicale e un’importanza musicologica ma assurgono a ruolo
fondamentale nel rito religioso e nella relazione sociale della
comunità.
Un altro contributo importante viene dall’editoria con la
pubblicazione di un libro bello e interessante Launeddas (AM&D
- Isre), a cura di Giampaolo Lallai - Associazione Cuncordia e
Launeddas.
Il volume, in pregevole veste tipografica, vanta il contributo di
autori specialisti e di un ricco corredo iconografico. Le launeddas
vengono esaminate da diversi ambiti di studio che vanno
dall’archeologia alla musicologia, dalla storia
dell’arte alla linguistica, dalla paleografia
all’antropologia.
Lo strumento musicale più antico della Sardegna viene
analizzato nella scelta del materiale, nella lavorazione artigianale,
nella struttura dello strumento e nelle tecniche esecutive.
La parte iconografica offre la testimonianza archeologica del bronzetto
itifallico di Ittiri, la raffigurazione del flauto in una miniatura
medievale, numerose fotografie documentarie, a conferma di un lungo
filo storico che attraversa tutta la civiltà dei sardi. Non
meno interessante è l’analisi etnologica e
sociologica che vede le launeddas come formidabile mezzo di
aggregazione e comunicazione sociale. I giovani organizzavano comitati
per i balli pubblici e ingaggiavano un suonatore per l’intero
anno. Si era così creata una categoria di professionisti che
veniva pagata in misure di grano o moneta tanto da permettere un
discreto tenore di vita.
Al periodo d’oro dell’Ottocento e delle prime
decadi del Novecento successe il declino degli anni Trenta, soprattutto
con le nuove leggi di pubblica sicurezza che disciplinavano i mestieri
girovaghi e lo svolgimento dei balli in luoghi pubblici. Ma dopo la
più generale trasformazione antropologica degli anni
Sessanta, che ha stigmatizzato come negativa tutta la tradizione sarda,
è rinato uno straordinario interesse per il patrimonio
musicale. Per valorizzare le launeddas sono sorte associazioni
culturali, scuole frequentate da molti giovani, gruppi che tentano un
impiego dello strumento tradizionale in contesti sonori inediti.
L’obiettivo più immediato è la
creazione di un Istituto per lo studio della musica sarda, la difesa
della classicità della musica etnica e del suo insegnamento
nei Conservatori di specializzazione.
Un argomento da elaborare con maggiore approfondimento è il
rapporto tra musica delle launeddas e altre esperienze musicali, in
particolare con jazz e rock. Il pericolo è nelle
armonizzazioni arbitrarie e negli adattamenti superficiali. Certamente
non c’è una forma “originaria”
della musica popolare, ogni processo è storico e dunque
nella prospettiva di evoluzione e innovazione ma per linee interne e
per confronti produttivi. L’adattamento alle
sonorità del nostro tempo richieste immersione
antropologico-musicale e creatività artistica.
Altro discorso è l’impiego di formule ritmiche
tradizionali o l’inserimento di un suono o di una melodia di
musica popolare in altri contesti musicali, da inserire come una pietra
preziosa in un’altra cornice. Sono certamente stimolanti i
contatti e le interferenze tra musica etnica e altre musiche,
l’importante è che l’esperienza produca
ricchezza musicale ed elaborazione stilistica, nel rispetto delle
cellule melodiche fondamentali. Anche quella musicale è
un’identità in cammino.
Magari si potrebbero distinguere due modelli musicali delle launeddas,
uno tradizionale che rappresenta l’identità
ereditaria e che può sperimentare nuove elaborazioni per
linee interne, un’altra invece aperta ai processi di
contaminazione con altre esperienze musicali purché
garantite da un’intelligenza creativa.
Ma più di qualunque discorso vale la musica: si tratta di
disporsi all’ascolto per essere presi da
fascinazione.

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Recensione al volume:
Antonangelo Liori, Racconti
della montagna
La Nuova
città
maggio-giugno 1998
In un intenso volume di Antonangelo Liori
INQUIETUDINI E RITMI SEGRETI
di Gianni Pititu
Il mese scorso
è stato presentato alla Biblioteca Satta il libro
“Racconti della montagna” di Antonangelo Liori,
direttore del quotidiano “L’Unione Sarda”.
Sono intervenuti lo scrittore Bachisio Bandinu, il prof. universitario
Carlo Felice Casula; il giornalista Gianni Pititu, l’editore
Stefano Pira.
Al breve dibattito hanno partecipato Cesare Pirisi e il poeta Giovanni
Piga.
Siamo lieti di poter pubblicare integralmente l’intervento di
Gianni Pititu.
Sono un uomo di campagna, scrive Antonangelo Liori presentando il suo
libro. E di montagna, naturalmente. In un uomo di campagna, prestato
alla città, e anche se inconsapevolmente contaminato,
può capitare che si innesti quel processo di ricerca
dell’identità che porta a scoprire le vecchie
radici ma anche a soffrire per esserne allontanato e ad accorgersi che
è impossibile che qualcuno di quegli stracci uniti da un
filo invisibile, quello dei ricordi, non si sia lacerato e sia stato
strappato per sempre a quell’io che è il
protagonista del libro, cioè l’autore stesso.
E sì, perché in tutti questi racconti,
c’è l’autore con le sue inquietitudini,
i suoi pentimenti, le sue esultanze, le sue aspirazioni, le sue
incertezze, il suoi ritmi segreti.
Difficile dire se quest’io che narra e che sa abbia raggiunto
l’equilibrio di chi, strappato al suo mondo fatto di
semplicità e modestia e verità;, e poi approdato
in un altro fatto di esuberanza, di ipocrisia, di convulsione.
Ma, per paradosso, ricostruzione o solo rammentare le proprie radici
serve per capire l’oggi e per non smarrirsi. È
l’ancoraggio ultimo e provvidenziale, estremo e salvifico.
Contos o racconti? Detto che il racconto è, a mio giudizio,
il cimitero più arduo, più arduo ancora del
romanzo, mi sono chiesto se Antonangelo Liori scriva racconti
perché è il terreno a lui congeniale, quello che
gli consente di esprimersi al meglio; o se i racconti non sono altro
che contos trasposti all’oggi; e poi ancora se egli scriva
per sé o per i lettori.
La risposta è implicita nello stesso filo conduttore del
libro, in quell’io cioè che detta ogni riga e che
impersona ogni azione raccontata. L’io autore che scrive per
se stesso ma che chiede agli altri di seguirlo, che sceglie il racconto
come forma più diretta per narrarsi e far giungere
all’esterno il messaggio, che prende a piene mani dai contos
non tanto in senso contenutistico quanto letterario, trovando un modus
narrandi ideale, assolutamente consono al proprio stile di scritture e
alla propria esigenza descrittiva.
Cronache immaginarie? Nulla vi è di immaginario in questi
racconti. Tutto è calato in una realtà specifica,
unica, perché propria dell’autore, sua, vissuta e
conservata e preservata, calata interamente nel suo essere sino a farne
l’uomo che egli oggi è, e che non potrà
mai staccarsi da essa, da quel tempo magico che lo ha segnato e di cui
oggi vede l’estinzione. Su fochile, la minestra di fagioli,
le castagne secche non sono che sapori e profumi e sensazioni che
tracciano quella via dei sensi in cui l’autore cammina a
fatica, trattenuto e deviato dalle sollecitazioni della
città e alla quale egli si aggrappa come ultima risorsa ed
estrema consolazione.
Il libro è attraversato da contrapposizioni: il bene e il
male, la vita e la morte, la bellezza e l’orrore, la saggezza
e l’improntitudine, il sacro e il profano, la
semplicità e il contorcimento essenziali, la devozione e il
tradimento, la vendetta e il perdono.
Quel perdersi in mille rivoli, quello sprecare passi in viaggi vani,
quel cercare nella solitudine e nelle pagine antiche il conforto
agognato e mai raggiunto, quel piacere del conoscere e del dare che
è proprio solo della cultura tratteggiano la
personalità di questo scrittore, che è sensibile
e vulnerabile, fragile e incerto ma che ha avuto in dote dalla montagna
l’alterezza, la dignità, la forza per non farsi
depredare ma che al tempo stesso costituisce la sua macerazione e il
suo stordimento.
L’ultima predica del prete del paese ormai spopolato
è la predica pronunciata da chi scrive. Una spasmodica
ricerca dell’io perduto che ad ogni racconto ripete il suo
credo, il suo diritto di esistere ancora. E quel paese con le greggi
che ritornano, i pastori che cantano nelle bettole, le urla gioiose dei
bimbi nelle case, le madri che filano e tessono, i vecchi che
raccontano è il suo paese, diciamone pure il nome, Desulo, e
quello ideale in cui tutti dovremmo tornare. Un paese ci vuole, solo
per ritornarci, solo per ritornarci, ha scritto Pavese.
La compattezza nella solidarietà, quell’essere gli
uni per gli altri è principio smarrito per sempre. E quei
ragazzi coi gambali sono gli eroi in procinto di essere sconfitti e
quelle ragazze da marito che si fanno belle come fate sono visioni in
irresistibile dissolvenza. O sono ricordi che, trasporti al presente,
resistono anche nella realtà d’oggi? Un dilemma
che lo stesso autore non sembra incline a svelare.
L’autore si apre, si mostra in tutta la sua
solarità nelle tante massime disseminate nel libro.
«L’uomo fa ciò che il destino gli ha
imposto». E il destino si impone anche al bandito, al forzato
dell’emigrazione, alla donna costretta a casa, al
predestinato alla vendette. È il destino l’arbitro
assoluto: destini avversi e destini propizi, più quelli che
questi, in una terra feroce e dolce, selvaggia e sincera come la
Barbagia.
«Inutile vivere sino a cent’anni senza sapere il
perché». Per questo Liori vive in modo convulso,
per dare un senso. Un giorno mi ha confidato: questa frenesia mi
condurrà alla fine. Ma non se ne vuole affrancare, proprio
per la convinzione che essa stessa è la vita.
E allora dov’è la semplicità, la
saggezza degli avi (altra costante che attraversa queste pagine) che
predicano moderazione, il messaggio della montagna che nella solitudine
e nella desolazione, anche nella povertà e persino
nell’indigenza dava la forza al pastore che era solo con e
contro la natura ma bastevole a se stesso?
Ritorna la contrapposizione, la lotta fra ciò che si
è stati e ciò che si è, fra
ciò che vorremmo ancora essere e ciò che non
possiamo più essere. Perché la vita segue
«percorsi imprevedibili», nei quali noi poco
possiamo.
«Un’amicizia troppo grande, se finisce, diventa
odio feroce». C’è la Barbagia qui.
C’è il destino che, come nelle tragedie greche, si
impone all’uomo.
Ancora contrasti: la bellezza altera e la tempesta del tempo che la
distrugge, le mani d’ape, la voce di miele, leggera come un
soffio d’autunno, l’occhio del sole. Una bellezza
più bella dell’autunno ma che può
diventare più fredda e crudele dell’inverno.
Ma il contrasto estremo o meglio di dilemma ultimo è un
ritorno alla condizione di miseria che pone l’interrogativo
incredibile: rubare per i figli che hanno bisogno è peccato?
«Il giorno di Natale lo trascorsi cercando di capire cosa era
accaduto al mio padre adorato. Che non era per me, né lo era
in assoluto, un delinquente. Aveva solo cercato di vivere meglio di
quanto glielo consentissero le sue condizioni, per offrire ai suoi
figli un briciolo di serenità in più e per fare
in modo che almeno uno – io, sul quale nutriva questa fiducia
– potesse studiare e laurearsi; “Saresti il primo
studiato della mia famiglia”, mi aveva detto un giorno:
“Peppe non ci è portato, ma tu sì. E il
giorno che sarai laureato la gente dirà: Bobborrissina ce
l’ha fatta, ha un figlio laureato. E tu potrai aiutare la
famiglia perché saprai almeno scrivere una lettera, e
parlare negli uffici, e discutere con quelli che portano la cravatta e
decidono sulla vita dei poveri”».
La vita così se ne va. L’io narrante sente e
rivela che sta invecchiando. Ma gli resta ancora molto da dire: dei
sortilegi e il loro mistero, del Natale e della sua magia,
dell’uccisione in die nodida, del carro con il morto
ammazzato che irrompe nel paese e degli uomini stringono il berretto
fra le mani, segno drammatico e sublime di dolore.
Altre due massime che sono tutte di Liori. La prima è una
verità, la seconda è un’aspirazione:
«Per imparare bisogna essere umili», «la
vita è migliore quando si è sereni».
Riaffiora l’uomo di Barbagia: «quando le persone
non sono dove dovrebbero essere è sempre meglio sospettare.
E quando qualcuno è troppo pressante nel trattenerti
è sempre meglio andare». «Ciò
che più conta nella vita non è il denaro che si
possiede ma gli amici che si possono annoverare». E quel
cinghiale, che è animale sardo per eccellenza. E quella
mosca che gira e ronza e che è quell’io che non
trova pace e non sa ritrovarsi, che si smarrisce e che però
è vitale, senza sonno e pieno d’affanno.
I labirinti sono ricordi, ricerca di sé, sono la casa
paterna, dei nonni, sono gli avi dalla rievocazione mitica e dolente,
sono gli uomini e la campagna, un mondo perduto al quale si chiede di
tornare.
E tanti interrogativi cruciali: parteggiare o no per il bandito?
(«Giovanni Serrittu fu un eroe negativo, ma può
essere forse considerato un po’ come il simbolo di tutte le
contraddizioni di una terra dove muoiono i fiori nel giorno di San
Giovanni»). E la morte in Barbagia è una
maledizione o un accidente oppure una fortuna? E lo stesso
abbigliamento, quell’antico vestito de belludu è
la costante resistenziale della nostra identità,
l’orgoglio della nostra appartenenza o è la gabbia
entro cui siamo chiusi e dalla quale non riusciamo a liberarci?
La discrezione («l’anima dev’essere
oculata in una tasca da chi ha buon senso») è
balentia o pudore? E il coltello è arma di offesa e di
difesa, è espressione di forza o solo consapevolezza di
autonomia, di autoprotezione? E il vento di Orune è
l’anticamera del suo cimitero o il segno di una forza
naturale che vuole sconfiggere, infliggendola ai buoni, la
malvagità degli uomini E la donna barbaricina è
un mistero irrisolto o l’entità stessa del nostro
male? E il carnevale è espressione di coraggio o rivelazione
di paura? E la stessa Passione di Cristo rappresentata nei nostri paesi
è morte? E il pastore col suo libricino di preghiere
è ancora un eroe o un debole?
Alla fine, di tutto questo intrico di sensazioni, di umori, di
emozioni, che «non potranno essere chiusi in luoghi diversi
dal nostro cuore», resta la grande nostalgia di
un’esistenza, quella della montagna, segnata
dall’avvicendarsi del giorno e della notte, ritmata dalle
stagioni, cadenzata dalla saggezza dei vecchi, ispirata al rispetto
della natura e degli uomini.
Essenziale come la povertà. Modesta come la terra. Sincera
come l’acqua. Passionale come il fuoco. Pura e crudele. E noi
siamo qui non a rimpiangerla ma a rivendicarne le certezze, il valore,
la filosofia, i contrasti, il mistero. Perché si vive solo
se si hanno domande profonde. Perché la vita, come dimostra
questo libro, è sempre originale e basta trascriverne le
invenzioni e gli incanti, gli orrori e le ambiguità per
creare racconti intensi e propositivi.
Racconti che sembrano evocare e celebrare la gioia di vivere, la
bellezza dei paesaggi, l’odore e il sapore dei cibi, il
fiorire e il fuggire dei sentimenti e sui quali pesa tuttavia una
malinconia immensa che sembra provenire dal passato, che canta e fugge
come il canto di un violino o il mormorio di un fiume. E noi siamo qui
ad ascoltarne gli ultimi tenui, ormai impercettibili suoni.

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Recensione al volume:
Salvatore Tola, La poesia dei
poveri. La letteratura in lingua sarda
La Nuova
Sardegna
6 gennaio 1998
NELLA TERRA
DELLE MUSE
UN INVENTARIO PREZIOSO DI MEMORIA SARDA
di Manlio
Brigaglia
Come diceva il
padre Bresciani, a metà del secolo scorso: «Io vi
prometto, che in Gallura e in Barbagia, e per tutte le montane parti
dell’Isola vi menerei per mano a udir pastori e bifolchi
dialogizzare le ore intere per versi all’improvviso, con tale
grazia, vivacità, arguzia e copia di sentenze e di guizzi
poetici da farvi esclamare: qui siamo in terra delle Muse».
Muse d’un paese arretrato, d’una civiltà
di pastori e contadini sempre ai limiti della sopravvivenza: la
«poesia dei poveri», come è intitolato
il bel libro che Salvatore Tola ha dedicato, come dice il sottotitolo,
alla letteratura in lingua sarda.
La tesi centrale del libro è che la letteratura prodotta in
Sardegna in lingua sarda è stata, per secoli, quasi
esclusivamente poesia orale. Se non proprio a cominciare da Tigellio,
il poeta-cantore che le false carte d’Arborea dicevano nato a
Ploaghe, ma che era un personaggio storico, preso di mira da Orazio: se
non proprio da lui, certo dai secoli più antichi. Questa
letteratura, che si esprimeva quasi sempre nelle forme della poesia in
rima, più facile ad incidersi non solo nella memoria ma
anche nella coscienza collettiva, è stata a lungo quasi
l’unico modo di espressione di sentimenti, passioni,
speranza, bizze, malumori e dolori delle comunità isolane.
Anche gran parte della poesia considerata “scritta”
(come quella di “Padre Luca” Cubeddu o Pietro
Pisurzi, che sul declinare del Settecento fondarono quella che potremmo
chiamare la tradizione moderna della poesia sarda) era nata in
realtà come una poesia improvvisata: che poi, col
diffondersi dell’attenzione romantica alla poesia popolare,
cominciò sempre più di frequente ad essere messa
per iscritto da studiosi e ricercatori. La letteratura orale, dice
Tola, per essere definita tale deve avere tre caratteristiche
essenziali: «l’oralità della
composizione, cioè l’improvvisazione; della
comunicazione, ossia la performance e l’esibizione; della
trasmissione, quando è affidata alla memoria». Una
quarta caratteristica essa aveva almeno in passato: nella poesia orale
– ha scritto Michelangelo Pira – il pubblico aveva
«l’impressione e il piacere di comporre»
attraverso la voce del poeta, «organico alla sua
comunità».
A questa organicità a una massa indistinta e per lunghi
tratti pensata come senza divisioni di classe (una tesi piuttosto
difficile da accettare, anche quando vi accennino antropologi
straordinari conoscitori delle comunità interne come lo
stesso Pira) va forse addebitata quella vocazione della poesia orale a
tenersi nel (giusto?) mezzo, a non mettere in crisi le istituzioni
della società e della religione. Tola estrae, dal lungo
inventario di temi e di forme che ha messo a punto in questo libro,
l’affermazione che «il dato più evidente
è lo stato di subalternità in cui si trovavano le
masse popolari, e il relativo intento dei poeti di contribuire a
mantenerle in quella condizione».
Altri ha notato, come lui, in questi poeti che pure si facevano voce
della comunità, «visione delle cose e linguaggio
improntato a prudenza, moderatismo, conservatorismo».
Può aver avuto un ruolo, in questo, la folta presenza di
sacerdoti-poeti (Melchiorre Dore e Diego Mele, per dirne solo due): ma
deve aver contato anche il fatto che quella società era, fin
ben dentro l’Ottocento, una società
d’ancien régime, in cui quella
“subalternità” si era incarnata negli
istituti della soggezione ai dominatori di turno e, a partire
dall’arrivo degli Aragonesi, dell’oppressione
feudale.
Detti così, in larga sintesi, sono alcuni dei tanti temi che
la lettura di questo libro immediatamente suggerisce. Tola ha raccolto
e sistematizzato migliaia di versi appartenuti alla tradizione orale,
prima e dopo quella manifestazione che fu la consacrazione di questa
«poesia dei poveri»: la gara poetica di
improvvisatori organizzata da Antonio Cubeddu, in piazza ad Ozieri, nel
1896.
Ma non ci sono solo gli improvvisatori
“professionisti”, nel libro di Tola: ci sono tutti
– e spesso sono le voci anonime dei muttos e dei muttetus
– quelli che hanno espresso in versi i moti individuali e
collettivi dei sardi. Già da sola questa sorta di vasta
antologia intorno alla quale è costruito il discordo critico
è un lavoro di grandissima importanza, specie in un momento
come questo in cui tutto quello che riguarda la lingua sarda (dal suo
declino alla sua “difesa”) deve confrontarsi non
solo con grosse fette di indifferenza al tema ma anche con lo
strapotere mediatico e istituzionale di altre lingue, a cominciare
dallo stesso italiano.
Tola, che fa anche il conto delle decine e decine di concorsi di poesia
(scritta, questa volta: perché, come dice, in questi ultimi
decenni «l’oralità si è
venuta gradatamente ‘impastando’ con la
scrittura») che si organizzano oggi in Sardegna, è
meno pessimista di molti altri sul destino della lingua regionale: e se
la citazione finale di un rap tutto sardo dei Mogoro Posse è
una bella invenzione a concludere, non c’è dubbio
che la lingua sarda ha più risorse e più
capacità di resistenza di quanto qualche volta ci capita di
accreditarle.
La poesia dei poveri. La letteratura in lingua sarda di Salvatore Tola,
AM&D, Cagliari, 336 pp., 28000 lire.

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S’Ischiglia
febbraio 1998
LA POESIA DEI
POVERI DI SALVATORE TOLA
Per i tipi delle
AM&D Edizioni di Cagliari, in bella veste tipografica,
è comparso di recente il libro di Salvatore Tola, La Poesia
dei poveri, la letteratura in Lingua Sarda (pagg. 331, lire 28.000).
Si tratta di un bel libro!
La prima cosa che colpisce il lettore nella lettura di
quest’opera è l’atteggiamento di
…pia e profonda simpatia che l’Autore mostra nei
confronti della poesia – diremo così –
“popolare” in lingua sarda, simpatia che regge
perfino di fronte a componimenti del passato, anche recente, quali
pochissimo o addirittura nulla avevano di “poesia”
e cioè di “arte”.
Versi sgangherati, zoppicanti sia nel ritmo che nella rima, di autori
noti ed anche non noti, vengono analizzati dal Tola con grande pazienza
e con sentita comprensione, in vista del fine che egli si è
prefisso di offrire un quadro ampio ed austivo di quella che
è stata ed è la “poesia dei
poveri”, dei poveri Sardi. Su questo piano il titolo
dell’opera del Tola non poteva essere azzeccato meglio. In
… ordine di idee l’Autore presenta anche un quadro
ampio ed approfondito della “poesia da palco”,
ossia di quella dei poeti improvvisatori, che molto fiorenti ed
…irati nel passato, sono molto lungi …scomparire
nel presente.
…ovviamente l’Autore non si limita alla analisi
della “poesia popolare” in lingua sarda, ma pian
piano si eleva alla considerazione e all’analisi della poesia
colta, che già nell’Ottocento, ma soprattutto nel
cinquantennio succeduto alla II guerra mondiale, ha raggiunto i vertici
della vera e grande arte. In questo l’Autore è
stato facilitato nel suo studio dalla sua lunga attività di
membro delle commissioni di premi letterari in lingua sarda che si sono
svolti e si svolgono tuttora in tutta l’Isola.
Su questo piano, già dal punto di vista documentario;
nessuno avrebbe potuto essere più e meglio informato di
Salvatore Tola. Ne è derivata un’opera che
più completa non poteva essere nel presentare un quadro
ampio e dettagliato dell’intera poesia scritta od espressa in
lingua sarda.
Ed il Tola dice di condividere appieno quanto io avevo avuto modo di
scrivere qualche hanno fa: “I poeti sardi sono quelli che in
quest’ultimo cinquantennio hanno contribuito meglio di tutti
gli altri alla conservazione della lingua sarda e che hanno predisposto
la migliore base per il suo recupero e per il suo rilancio”.
Nell’opera del Tola converge anche l’intera
produzione critico-analistica degli autori che lo hanno preceduto,
autori dei quali viene citato non soltanto il pensiero, ma vengono
riportate anche numerose frasi testuali, ai fini di una
oggettività ed onestà di documentazione e di
giudizio.
Molte pagine il Tola ha dedicato al passaggio travagliato e –
quasi incredibile a concepirsi – spesso perfino ostacolato e
respinto, dalla poesia in lingua sarda dalla fase della
oralità a quella della scrittura. Ostacolo e repulsione
esercitati dai “poeti da tavolino”…
Giustamente insistita e sottolineata è la considerazione
che, nella lunga fase dell’oralità, gli elementi
del ritmo e della rima hanno costituito una esigenza indispensabile per
la trasmissione della poesia di generazione in generazione.
Infine si deve anche dire che l’opera del Tola è
scritta in una bella e perspicua forma italiana, nella quale non una
sola parola risulta scritta in più oppure in meno.
Concludendo e ripetendo: quello di Salvatore Tola è un bel
libro, del quale non potranno fare a meno tutti coloro che abbiano un
sia pur minimo interesse per la letteratura e, più in
generale, per la cultura dei Sardi.

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Il
Provinciale oggi
1 giugno 1998
Rubrica: Cultura Costume
di Giovanni
Giacu
“La
lingua sarda è stata per me, all’inizio, niente
più che un sommesso bisbigliare in una sala cinematografica.
Iniziai a comprenderlo soltanto quando, nel 1954, ci trasferimmo in
Sardegna: capitava più di oggi di sentir parlare il
Logudorese e il Sassarese, e di tanto in tanto anche il Gallurese, sia
nella periferia di Sassari, dove ci eravamo stabiliti, che nel paese di
mio padre. Poteva essere il grido dei venditori ambulanti; o il canto
dei contadini che passavano sul carro o in bicicletta, oppure, al
paese, il saluto tra la donna affacciata sulla porta di casa e lo
zappatore che si avviava verso i campi, o ne tornava. Tutta la giornata
era scandita da frasi, battute e modi di dire che dovevo
necessariamente penetrare; come anche i racconti che il nonno, vecchio
e saggio come un patriarca, mi faceva, solo in sardo, per rievocare
episodi della sua vita, fatiche, imprese, personaggi”.
Esordisce così il saggio di Salvatore Tola: “La
Poesia dei Poveri”, dedicato alla letteratura in Lingua Sarda.
Il testo che si snoda in un percorso di 18 capitoli, mette in evidenza
il travaglio e la bellezza di una cultura poetica dai molti ritenuta
inferiore, perché non ha avuto mai la possibilità
degli onori della grande letteratura: era redatta in sardo. Molti
studiosi, anche sardi, “pur coscienti del valore della lingua
sarda, erano influenzati dal presupposto che essa, se non altro per il
rapporto in cui veniva a trovarsi con l’italiano, fosse da
destinare ad un ruolo subalterno, come una «lingua B, che
è la lingua dei soggetti» di fronte a una
«lingua A, che è la lingua del potere”.
Sembra un assurdo, ma molto spesso ciò che di più
bello possediamo non viene accolto, si preferisce altro.
In questo saggio, il Tola, oltre a descrivere ed analizzare il percorso
storico del fenomeno poetico in Sardegna, compie
un’operazione culturale di notevole interesse: svela il
fascino della poesia in lingua sarda ai sardi. Nelle 331 pagine che
compongono il saggio, s’incontra il mistero di un mondo
poetico che penetra oltre la quotidianità, i recessi
più reconditi dell’animo umano. Vi è
l’incontro con il “disvelarsi”
dell’uomo, che affida a dei versi la propria storia, i
sentimenti, la gioia e il dolore. Vibrazioni che possono essere colte
nelle svariate testimonianze poetiche che il Tola propone nella
specificità della lingua sarda: “Dai su primu
istante/ chi eo pro acasu ti miresi/ luego fattu amante/ servireti
costante proponzesi;/ fatu luego amante/ proponzesi servireti
costante./ Tue ses su tesoro,/ tue su bene meu, sa mia vida,/ a tie
sola adoro/ a tie sola ap’in coro imprimida”.
La poesia dei poveri, ci invita all’ascolto
dell’altro. Ascolto qui dice custodia: quei versi, quelle
parole che l’animo dei poeti ci hanno donato durante i
secoli, non sono nostri, di noi che stiamo all’ascolto, ma
provengono da fuori, dall’altro, che ci parla, che viene a
noi. La custodia di questi versi comporta il riscoprire un amore
perduto, che si erge come giudice a chiedere giustizia per il nostro
tradimento. La custodia di questo bene che è la poesia,
comporta quindi corrispondenza all’amore,
nell’amore, al proprio essere e divenire, per evitare di
trovarci come uomini senza memoria e radici.
La parola poetica eccede l’ascolto, perché il
silenzio da cui proviene eccede la parola. E pertanto la parola
poetica, parabola del silenzio, apre l’ascolto
all’abisso del proprio essere, impedendo così di
dimenticare il messaggio che questa poesia vuole trasmetterci, e la
conseguente chiusura con travagli della nostra storia personale e
comunitaria.
Parafrasando Dostoevskij, permetteteci porre questa domanda: Quale
bellezza salverà la Sardegna? Crediamo la poesia.
“Siamo ancora in tempo: la nostra non è ancora per
fortuna una “reliquia” ma una
“sopravvivenza”: il senso
dell’identità è forte e vivo; la
memoria di come eravamo non è spenta; secoli di
civiltà orale mostrano le loro tracce. Gli elementi positivi
del passato vengono riscoperti giorno per giorno e si fanno evidenti;
è a portata di mano la possibilità di isolarli e
riprenderli potenziandoli. …Se ci voltiamo indietro ci
accorgeremo di essere «diversi e forse migliori di quel che
ci hanno fatto credere». …La distruzione di
antiche e venerande culture è una perdita per
l’umanità intera; ma soprattutto, aggiungiamo noi,
per quanti in una di quelle culture hanno avuto i propri nutrimenti
profondi, anche se possono averli poi dimenticati o rimossi”.

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Il
Messaggero Sardo
novembre 1998
Rubrica: Cultura
“LA
POESIA DEI POVERI”
PRESENTATO A TORINO AL SALONE DEL LIBRO
di Paolo Pulina
L’ultima
ricerca di Salvatore Tola La poesia dei poveri. La letteratura in
lingua sarda (Cagliari, Edizioni AM&D, oltre 330 pagine)
è stato presentato al salone del Libro di Torino (il 24
maggio, relatori l’autore e Giacomino Zirottu) e il 14 giugno
presso il Circolo “Domo Nostra” di Cesano Boscone
(presieduto da Giovanni Cervo relatori l’autore e il socio
Piero Ruzzeddu).
Quest’opera è di grande interesse per gli
emigrati, dei quali Tola (appassionato curatore, come sappiamo, di una
regolarissima e apprezzatissima “pagina della poesia in
sardo” sul nostro “Messaggero”)
sottolinea una speciale risorsa “critica”. Scrive
infatti l’autore in uno degli ultimi capitoli del suo libro a
proposito della tentazione della “piccola borghesia
locale” di cercare di superare il “congenito
complesso di inferiorità con l’adozione della
lingua e della cultura ufficiali, cancellando allo stesso tempo quelle
locali”. «Sembra che non si riesca neppure a far
tesoro delle esperienze dell’emigrazione, che pure sono state
così intense e molteplici, oltre che dolorose, negli ultimi
trent’anni i più maturi tra coloro che sono stati
proiettati lontano hanno capito quanto sia importante avere alle spalle
una cultura, una civiltà, una lingua; e che si entra meglio
in contatto con gli altri quanto più radicata è
la consapevolezza che si ha della propria identità,
diversità e originalità”.
Anch’io ho letto questo affascinante volume ponendomi dal
punto di vista dell’emigrato, cioè
dall’osservatorio valorizzato da Tola nel brano sopra citato.
Mi è sovvenuto subito il ricordo di un’esperienza
personale. A diciotto anni, su sollecitazione del prof.
d’italiano, Manlio Brigaglia, trascorsi le vacanze estive del
1966 (dopo la seconda liceo all’Azuni di Sassari) lavorando a
una ricerca su «La poesia dialettale in Sardegna negli anni
1963-1965», che ebbe una segnalazione speciale da parte delle
giuria del “Premio Ozieri” di quell’anno
e che pubblicai a stampa a Pavia nel 1982.
Si trattava di verificare – attraverso un’analisi
quantitativa dei componimenti poetici nelle diverse varianti della
lingua sarda apparsi in Sardegna nel triennio in esame –
quali echi in essi vi fossero delle tematiche sociali, economiche,
politiche e culturali che venivano agitate in Sardegna in quegli anni
cruciali per le ipotesi di sviluppo prefigurate dal “piano di
rinascita”.
Quel mio lavoro da studente liceale interessò, agli inizi
degli anni Settanta, il compianto Sergio Antonelli, docente di
Letteratura italiana contemporanea presso
l’Università Statale di Milano, ma non fino al
punto di autorizzarmi a svolgere una tesi di laurea che fosse
continuazione e approfondimento dell’argomento, superando
ovviamente i limiti temporali dentro i quali avevo circoscritto la mia
indagine. Con una battuta potrei dire, se avessi avuto quella
autorizzazione, Salvatore Tola avrebbe potuto risparmiarsi una parte
della sua veramente encomiabile applicazione all’argomento
non dimentichiamo che Tola, anche se di padre sardo, non è
nato in Sardegna: è molto bello il primo capitolo
dell’opera, in cui l’autore di origine
“continentale” racconta l’apprendimento
della lingua e l’approfondimento della conoscenza della
poesia sarda. In effetti, anche in un arco temporale di secoli e non di
alcuni anni, Tola non può non riconoscere la
validità delle osservazioni formulate agli inizi degli anni
Sessanta dallo studioso Michelangelo Pira relativamente alla
sostanziale (fatte quindi le solite doverose eccezioni) delle
espressioni poetiche in lingua sarda. Scrive Tola: «Il dato
più evidente è lo stato di
subalternità in cui si trovavano le masse popolari, e il
relativo intento dei poeti di contribuire a mantenerle in quella
condizione: salvo qualche accenno di protesta l’espressione
poetica in lingua sarda per rivendicare, il tono generale è
di acquiescenza e rispetto verso le autorità e di chiusura
verso le più drammatiche questioni sociali e
politiche».
Sono andato a rileggermi le direttive per la stampa emanate nel 1931
dall’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio fascista
nucleo del futuro Ministero per la Cultura Popolare, il famigerato
MinCulPop): «Non pubblicare articoli, poesie, o titoli in
dialetto. L’incoraggiamento alla letteratura dialettale
è in contrasto con le direttive spirituali e politiche del
regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne
costituiscono la principale espressione, sono residui di secoli di
divisione e di servitù della vecchia Italia”.
Anche dopo il crollo del regime fascista – che, come risulta,
intese soffocare ogni espressione in dialetto quelli che hanno poetato
in lingua sarda difficilmente si sono immessi nella “corrente
progressiva”, hanno spesso invece preferito un percorso a
ritroso nel tempo, inseguendo le forme e i contenuti
dell’Arcadia, fuori di ogni contatto col reale e in
particolare lontani da qualsiasi contaminazione col reale storico che
superasse il perimetro del proprio villaggio.
Anche uno studioso pur benemerito nella raccolta della poesia popolare
e d’autore in lingua sarda come il canonico Giovanni Spano
(meritevole di commemorazione in questo 1998 in cui ricorre il
120º anno dalla morte; personaggio al quale peraltro Tola ha
dedicato un’attenzione particolare, curando la pubblicazione,
agli inizi del 1998, dell’importante Autobiografia,
intitolata Iniziazione ai miei Studi, uscita presso le Edizioni
AM&D e finora inedita in volume), non solo in quanto sacerdote,
ma in quanto rappresentante di una visione del mondo di tipo
conservatore, non può certo costituire un modello per una
concezione progressiva della storia.
Solo negli ultimi anni – come Tola documenta – si
è usata l’espressione poetica in lingua sarda per
rivendicare diritti. Il libro si chiude con un rap in sardo del gruppo
“Mogoro Posse” - “Balentia” in
cui tra l’altro si dice: «Cussa chi immo’
tui intendisi e’ sa boxi ‘e sa Sardegna / arrebella
contra totu is ingiustizias ca no tei bregungia ‘e fueddu, ma
sa rima e’ sempri pronta / e ti sfunda’ su
ciobreddu, ti intrada me in sa conca; / sa poesia de sa ‘ia,
su rap, sa limba sarda, / sa boxi de protesta de sa genti
pru’ bastarda».
Un libro pubblicato da Garzanti-Scuola, dedicato al Rap e curato dallo
studioso pavese Massimi Depaoli, cita un altro rap (di “Sa
Razza”) in lingua sarda. I concetti sono simili:
«Su rap slang sardu ci arricheriri de prusu / poitta su
presciu dessu sardu du deppis difendi / custa e’ sa causa
poitta seus rappendi / ma s’unica speranza po sa genti mia /
soprabbivi in noi / soprabbivi in sa ‘ia /... / Manna
‘e sa ‘ia, cesti postu po tui puru / ci bivvu
sì ma non spaccio e non furu / pozzu usai su fueddu in rima
giai / non lassu nudda aintru, seusu in dusu a du rappai /».
Il versante della cultura orale consente di colloquiare in modo
interculturale: la mia ricerca del 1966 immediatamente
interessò colleghi bibliotecari attivi nella realizzazione
di un momento canonico (l’ora del racconto)
dell’attività delle biblioteche per ragazzi in
Francia.
Il libro è presentato nella collana “I
griot”, che sono gli antichi raccontatori africani. (Ha detto
in un’intervista un rappresentante del Mali trapiantato in
Italia: «La nostra cultura ha una tradizione essenzialmente
orale. Il compito dei griot, una specie di cantastorie, è
quello di tramandare la cultura da padre in figlio, da famiglia in
famiglia. Possono essere paragonati a giornalisti o a messaggeri che
portano le notizie alle famiglie»).
Estremizzando, cioè assumendo fino in fondo
l’atteggiamento giustamente protettivo di Tola (nei confronti
del patrimonio spesso misconosciuto che è costituito dalla
poesia improvvisata) anche nelle biblioteche e nelle scuole sarde
dovrebbe essere riservato uno spazio agli improvvisatori e alle loro
competenze orali.
Manca nel libro una citazione da Pasolini e forse è un bene.
In una sua ben determinata (quindi, assolutamente mediata) posizione di
difesa del paradiso che sarebbe rappresentato dalla campagna non
inquinata dalla civiltà industriale, contenuta
nell’Introduzione all’antologia della poesia
popolare Canzoniere italiano (Parma, Guanda, 1955, poi ripubblicata da
Garzanti nel 1972), Pasolini osservò che, in una
civiltà di poveri come quella barbaricina in particolare e
sarda in generale, la ricchezza è costituita dalle pepite
d’oro delle espressioni dei mutos: “Data la
sproporzione tra il centro civilizzatore e dominante e
l’isola quasi dimenticata, possedere un pezzo di prato o un
tugurio in Barbagia è un possedere in assoluto: tale da
consentire la pretesa di una poesia eletta. I mutos sono come degli
umili oggettini d’oro in una regione dove altro oro non si
possiede...”.
Forse è venuto il tempo di affermare che
l’oralità, e magari anche i libri che tramandano
oggi l’oralità, si apprezzano di più se
non si è costretti a far la fame: ispiratrice di grande
poesia (vedi il personaggio di Mastru Juanni) se non supera un certo
limite...

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Recensione al volume:
Giovanni Lilliu, L'Archeologo
e i falsi bronzetti
La Nuova
Sardegna
3 maggio 1999
I FALSI
BRONZETTI E I FALSARI DI SEMPRE
L’INCREDIBILE «GIALLO» DEGLI IDOLI
SARDO-FENICI RICOSTRUITO DA GIOVANNI LILLIU
di Leandro Muoni
I sardi di oggi,
al pari di tanti nostri connazionali delle altre regioni, si dividono
sostanzialmente in due categorie: quelli che vorrebbero
«riprendersi la Sardegna» e quelli che vorrebbero
«assicurarle un avvenire migliore». Pare che le due
cose non coincidano. Tant’è vero che il
motto-guida dei secondi ribadisce «Europa,
Europa!», mentre la parola d’ordine dei primi va
martellando «centralità mediterranea».
Un editore cagliaritano dai magnanimi lombi barbaricini che si colloca
su questa sorta di trentottesimo parallelo, proprio lungo la linea di
demarcazione, ci propone una novità capace di riconciliare
per un momento le due anime contrapposte: nel nome
dell’invenzione creativa e del piacere del testo.
Si tratta di un’opera di carattere accademico, ma
così singolare da potersi forse annoverare fra le
più belle prose della letteratura di Sardegna. Per la
verità, il saggio di Giovanni Lilliu «Un giallo
del secolo XIX in Sardegna - Gli idoli sardo-fenici» era
già apparso negli anni Settanta sulla rivista
«Studi sardi». Viene ora affidato al vasto pubblico
sotto il nuovo titolo «L’archeologo e i falsi
bronzetti», assieme alla biografia dell’autore
raccontata da Rossana Copez (un testo nel testo, sul quale non possiamo
soffermarci in questa sede), il tutto per i tipi da AM&D
Edizioni.
Il libro trae spunto tematico da un falso più antico e assai
meno noto rispetto alle famigerate Carte d’Arborea: e
cioè quello riguardante la «contraffazione e
adulterazione» dei cosiddetti «idoli
fenici» o «sardo-fenici».
Sardegna dunque patria elettiva (o predestinata) dei falsi
storico-culturali? Siamo al giallo nel giallo. In un momento come
l’attuale, in cui anche un maestro riconosciuto del genere,
quale Andrea Camilleri, accusa la stanchezza e paga lo scotto di un
successo forse obbligato, incassando le punture vendicative
ancorché veritiere di Raboni, ecco che riprendiamo quota con
un giallo autentico, anzi con un piccolo capolavoro della saggistica
narrativa di carattere istruttorio; della più
bell’acqua amarostica.
Un vero giallo sardo, anzi sardignolo, verderame: raccontato non come
usano i giallisti di professione, «sine ira et
studio», ma come fanno gli scrittori di razza, che scrivono
con tutta la loro segreta passione e la loro indignazione controllata.
Giovanni Lilliu ricostruisce, tessera dopo tessera, la vicenda-puzzle
dei falsi bronzetti che si moltiplicarono a centinaia tra il 1813 e il
1883, fabbricati in uno stile mostruoso e bizzarro, fino a quando non
vennero espulsi dal Museo di Cagliari – dove pure avevano
ricoperto per cinquant’anni il posto d’onore
– in quanto «falsi e bugiardi». La
serrata analisi investigativa obbedisce nelle intenzioni
dell’autore ad uno scopo canonico: contribuire alla ricerca
del colpevole, qui assunto nello scacchiere alto delle
responsabilità storiche (moventi, mandanti, comparse), dove
la posta in gioco o la vittima predestinata è poi la vera
identità culturale di un popolo.
Il giallo dei nostri idoli comincia nel 1813. Il vettore occasionale e
inconsapevole di tutta la vicenda fu un professore danese di scienze
naturali in visita in Sardegna: Iacopo Keyser. Keyser, da buon turista
settecentesco, recava con sé il suo album da disegno e
schizzava monumenti (soprattutto nuraghi).
A Cagliari conobbe Ludovico Baille, il maggiore erudito e antiquario
isolano del tempo. Nella collezione di antichitá di Baille,
Keyser poté vedere e ritrarre sette interessanti
«idoletti». Tornato in patria li mostrò
all’amico letterato Friedrich Münter, vescovo di
Séeland, appassionato di religioni orientali. Il quale a sua
volta li propose ad un altro dotto, suo collega, vera
autorità in materia di antichità fenicie:
Federico Kreuzer.
Il «gioco era fatto»: nasceva così il
«caso sardo», col crisma del «potere
scientifico e letterario più prestigioso del
momento». «I falsi sardi facevano
l’ingresso ufficiale nella scienza e nella dottrina
«sacra» del periodo». La cosa non sarebbe
però finita in gloria. «Ecco infatti spuntare chi
sa come e da dove nel Museo di Cagliari altri idoli fenici, quasi
simili a quelli di Münter, per proporzioni, stile, fattura e
contenuti. Figure laide, dall’aspetto demoniaco, allucinante:
corna, teste mezze umane e mezze canine o di porco, mani che generano
teste d’uomo rovesciate. Un delirio di forme, una metafisica
surrealistica «ante litteram».
Anche Alberto Lamarmora cade nella rete, ma da par suo «ce la
mette tutta in dottrina ed elucubrazioni
“teologiche” per spiegare i misteriosi
significati». L’insigne «amico della
Sardegna», da buon subalpino, ipotizza perfino immaginarie
componenti druidiche da affiancarsi ai motivi fenici. La Sardegna
appare come sotterraneamente contesa tra gli spiriti del Nord e quelli
del Sud. A riprova del destino della sua identità incerta o
nascosta.
«Qualche anno dopo, Valery nei “Voyages en
Corse” (1837) scriverà di 150 piccoli idoli fenici
il cui numero aumenta ogni giorno, che sono la parte caratteristica,
straordinaria del Museo». «Romanticismo su
romanticismo», chiosa Giovanni Lilliu.
Ma chi furono i falsari? Qui le cose si fanno più complicate
e alquanto torbide. E di vil conio: dove le rivalità
personali si mescolano ai sensi di malintesi orgogli localistici. Ci si
mettono di mezzo pure alcuni clerici vagantes con velleità
estetico-commerciali, e direttori di museo smaniosi di far carriera:
con adeguato corteggio di colpi di scena, colpi bassi, paternalismi e
adulazioni.
Ma il nostro autore non ha dubbi in proposito: i poveri diavoli furono
solo le comparse: «Era invece la gente-bene, la
café-society, la borghesia ricca e colta che nascondeva i
falsari dietro l’alone della dignità e del
perbenismo». Il giallo si tinge di lotta di classe. Il libro
assomma in sé complesse stratificazioni e chiavi di lettura:
è un condensato di metafore interpretative e di spie
ideologiche. Oltre che di lusinghe letterarie. La figura di Lamarmora
vi campeggia sovrana e corrusca, come invasata da un demone.
«Le diable qui vient de la mer». E nella prosa
stilettante di Lilliu s’indovina un non sopito, antico
antipiemontesimo.
Ma questo testo è anche una requisitoria interlineare contro
il ceto di certi «mediatori» locali, interessati
capofila di quel «demi-monde» di provinciali di
talento che ritengono di esercitare funzioni egemoniche presso i
conterranei in virtù del loro «salto
geografico» sull’altra sponda del Tirreno. Tipica
in tal senso la figura di Efisio Tocco, «uomo di
sottogoverno» con «buone doti di arrampicatore
sociale» (che pure ebbe il coraggio di attaccare
pubblicamente il Lamarmora).
Intanto, l’intreccio davvero diabolico fra i falsi bronzetti
e i successivi Falsi d’Arborea comincia a mettere a rumore
l’opinione pubblica, attraverso la stampa: alimentando le
difese d’ufficio e le inevitabili controaccuse.
Ma da questa querelle degna in fin dei conti di un «piccolo
cabotaggio all’italiana» restava un significato
profondo, come la ferita di un turbamento nella coscienza culturale
dell’isola.
Ci spiegheremo meglio, ma prima dobbiamo richiamare un fatto notevole,
che Lilliu evidenzia per onestà intellettuale ma non senza
una dolorosa ripugnanza: «Di questa storia non edificante,
l’ultimo episodio che corona la strana avventura fra il
giallo e il poliziesco è costituito dal comportamento di
Giovanni Spano». Egli avrebbe infatti incredibilmente
ritardato la verità sulla vicenda, per motivi di interesse
clientelare; anche dopo la sua nomina a regio commissario governativo
per le antichità e i musei di tutta l’isola e a
senatore del regno. «Sconcertante!» commenta
Giovanni Lilliu. L’avreste mai creduta possibile una simile
dissacrazione a distanza tra Sardi Patres? Spetterà ad
Ettore Pais, dopo la morte dello Spano, rimettere le cose a posto.
Sì, proprio all’austero sardo-piemontese Ettore
Pais. Ironie della sorte?
La vicenda dei falsi sardi ricostruita da Giovanni Lilliu –
una vicenda «con figure da sottosviluppo coloniale
– esemplarizza l’atteggiamento tuttora prevalente
nell’isola, dove la ricerca delle origini mitiche obbedisce
ad una duplice dinamica motivazionale: la falsificazione nobilitante
dall’interno. La cultura sarda sembra ancora prigioniera di
tale spurio e contraddittorio «romanzo familiare»
(a voler sviluppare fino alle estreme conseguenze un’ipotesi
cara a Nereide Rudas). E non è detto che la
realtà delle cose stia nel loro mezzo. Ebbene, tutta questa
stratificazione di significati e interpretazioni è insieme
implicata e dissimulata nel libro di Lilliu. Che perciò ci
pare un magistrale esempio di letteratura ermeneutica, uno
straordinario testo letterario.
Appartiene a un Lilliu razionalista ed illuminista
nell’approccio e nel metodo critico. Un Lilliu che assomiglia
quasi ad un pamphlettista del Settecento, teso a dimostrare un assunto
ideologico individuato nella ricerca stessa della verità.
Non è il Lilliu più tradizionalmente noto:
teorico di sardità, comunitarista e populista, demotico e
anticlassico. Vi riconosci piuttosto l’agente di un
illuminismo in questo caso dal retrogusto storicistico amaro, non
dissimile da quello di Sciascia: che offre spesso il fianco ad un
pensiero conservatore e antimoderno; e che però è
implacabilmente moderno nello stile dell’indagine. Insomma,
è il Lilliu che preferiamo: raffinatamente
«ideologue», e scrittore di caratura europea.

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Recensione al volume:
Siro Vannelli, Erbe
selvatiche e commestibili della Sardegna
L’Unione
Sarda
3 aprile 1999
Rubrica: Memorie Cagliaritane
UN ATROCE E ANTIPATICO VIZIO E UNA INNOCENTE E
POPOLARE VERDURA
INDIVIA E INVIDIA, PAROLE SIMILI DAL SIGNIFICATO OPPOSTO
di Antonio
Romagnino
Invidia e
indivia sono due parole quasi simili: le stesse sette lettere, le
stesse sillabe. Anzi basta che a pronunciarle si cambi per distrazione
uno qualsiasi dei loro elementi costitutivi, perché risuoni
l’altra di significato tanto diverso. L’invidia
è il più atroce dei vizi dell’uomo. Si
legge negli occhi di chi ci avversa, nelle sue parole ambigue o appena
accennate. È però più accanita nei
silenzi, quando cova torbida nella coscienza annerita. Quello che
è tuo, è più giusto che sia mio;
togliti di là che mi ci metto io, mormora con voce sommessa,
solo di rado te lo dice in faccia.
Ed è così universale che nel sardo è
entrata la parola italiana, tale e quale, sia nel logudorese, che nel
campidanese. Peste che fa stragi, come dice il proverbio toscano: Se
l’invidia fosse febbre, tutto il mondo n’averebbe.
L’indivia è invece una innocente creatura della
natura. È un’erba che cresce spontaneamente, ma
è anche largamente coltivata. Ed è una delle
migliaia di specie, tra cui Siro Vannelli, con la sua vasta esperienza,
ha prescelto le ottanta che fanno il suo libro utile e dilettevole:
Erbe selvatiche e commestibili della Sardegna, AM&D Cagliari.
Appena presentato ad un numeroso e festoso pubblico in quel circolo
culturale e ricreativo, che è sorto nel cuore di Cagliari,
le Janas di Gianni Ruggeri. Illustrazione del libro e dibattito hanno
anche riacceso memorie, più o meno lontane. E, appunto,
quella della indivia, che era nella dieta povera dei cagliaritani (ora
riabilitata e, tutta o quasi, fatta rientrare nella dieta
mediterranea), insieme con i legumi (fagioli, lenticchie e ceci), le
patate, i ravanelli, la lattuga. Si confondeva con la cicoria (a cui
s’avvicendava il nome scientifico di Cichorium endivia), si
mangiava o cotta o cruda, si alternava come insalata a sa lattia o
cupetta, la lattuga. Era saporita, ma amara, e quell’amaro
sembrava farla anche più umile.
Eppure l’indivia aveva, allora, come un’origine
regale. In quelle strette vie di Castello, il sole faceva ogni giorno
fatica a calarsi sui balconi e sulle grigie facciate delle case. Anche
quando il cielo era limpido, tra le cimase alte dei tetti sembrava che
il sole non fosse sorto ancora. Ma quando uno scalpicìo e
voci come squilli di tromba scoppiavano improvvisamente, era come se il
sole fosse sceso giù a precipizio, ad illuminare e scaldare
tutto. Erano le giovani donne campidanesi con in testa is cuberinas,
ripiene di frutta e di erbe, gridate a gole spiegate. Una coroncina di
panni ne attenuava il peso, e il passo a piedi scalzi procedeva sicuro
e malioso. Di dietro i vetri delle finestre, bambini e adolescenti le
guardavano stupiti, oltre il rosso delle arance e il giallo dei limoni.
Specie la bellezza prepotente di Gilla cancellava l’amaro
dell’indivia, che avrebbe venduto a chi si faceva intorno a
lei, più che a qualunque altra. Poi riprendeva a salire
verso le torri, in testa al corteo delle compagne pure gioiose, ed il
sole sembrava essersi fatto, come è sempre a primavera. Solo
is crabarissas, che come massaie rurali sfilavano nella via Roma,
durante le manifestazioni fasciste, anch’esse a piedi scalzi,
e mettendo a nudo le più forti caviglie del mondo, potevano
pareggiarle. Erano tante belle di Cabras, e ricordavano quella famosa,
uscita dal romanzo di Enrico Costa.
Dopo, a casa, l’indivia cotta o cruda, si faceva
più dolce, più appetibile. Rientrava in quel
rosario della miseria che è il regime alimentare di
un’Italia lontana raccontata da Riccardo Bacchelli:
«Ecco la sua dieta: rape, carote, bietole, lattuga,
radicchio, indivia, cavoli e cavolini di Bruxelles». E,
però, l’indivia è sempre meno amara
dell’invidia.

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Nuovi
Orientamenti
18 aprile 1999
ERBE SELVATICHE
E COMMESTIBILI DELLA SARDEGNA
di Paolo Mereu
L’uomo,
da quando esiste, ha utilizzato le erbe per nutrirsi, curarsi,
imbellettarsi e per produrre aromi, fibre, tessuti, colori, profumi,
utensili ed altro con cui ha sempre “migliorato” le
attività e le proprie condizioni di vita. Esisteva, quindi,
uno strettissimo e diretto rapporto tra l’uomo e le piante.
L’evoluzione e l’organizzazione sempre
più specializzata delle attività hanno poi diviso
la società umana in produttori e consumatori di questi beni
con un progressivo allontanamento dalla natura e dalla consapevolezza
della bontà e dell’utilità di tante
essenze vegetali.
Da diversi anni, però, è crescente la domanda di
prodotti genuini, d’antichi aromi, sapori e profumi. Riprende
ora quota la richiesta di “ambiente”. Di quel
rapporto con la natura che si interruppe con l’arrivo nel
mercato dei prodotti coltivati e di quelli si sintesi. Il lungo
distacco ha facilitato l’oblio delle tradizioni e della
cultura popolare che rendevano le erbe e il loro uso familiari a tutti.
Dove attingere ora? Peraltro, la raccolta o la coltivazione di talune
erbe, con le nuove richieste del mercato, potrebbe creare ricchezza e
posti di lavoro. Come fare?
Siro Vannelli, in “Erbe Selvatiche e Commestibili della
Sardegna”, con passione e competenza scientifica, con
esperienza umana e professionale “tosco-sarda”,
straordinariamente sensibile e cosciente per
l’entità e la qualità del vuoto
culturale che si è creato negli ultimi decenni, motiva e
guida il lettore alla riconquista della conoscenza e dell’uso
culinario delle erbe. Non solo. Oltre la presentazione botanica
l’opera e particolarmente ricca di notazioni di carattere
storico.
Colpisce, per esempio, la ricetta tratta da “Herbario
Nuovo” di Castore Durante (Roma 1585) che propone un piatto
strano: il “tronchetto di ferula alla brace”. Dopo
la presentazione di 60 specie botaniche, una serie di suggerimenti
pratici e un nutrito glossario sardo-latino incoraggiano il lettore a
rivivere gradevolmente il mondo vegetale con un proficuo proseguimento
delle ricerche.
È auspicabile una presentazione dell’opera in
occasione della “Mostra delle Erbe” annualmente
allestita ad Ussaramanna (7-15 maggio) dove potranno anche essere
riconosciute dal vivo e degustate le specie vegetali
descritte.
Il volume, (AM&D Edizioni di Cagliari) è in vendita
presso le librerie al prezzo di £ 28000.

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Erboristeria
domani
maggio 1999
Sardegna -
Aglio - Fiori di Bach
In origine,
esisteva uno strettissimo e diretto rapporto tra l’uomo e le
piante. L’evoluzione e l’organizzazione sempre
più specializzata delle attività ha poi diviso la
società umana in produttori e consumatori di questi beni,
con un progressivo allontanamento dalla natura e dalla consapevolezza
della bontà e dell’utilità di tante
essenze vegetali.
Dove attingere ora? Siro Vannelli, nel suo Erbe selvatiche e
Commestibili della Sardegna, con passione e competenza scientifica, con
esperienza umana e professionale ‘tosco-sarda’,
motiva e guida il lettore alla riconquista della conoscenza e
dell’uso culinario delle erbe. sessanta specie botaniche
della Sardegna vengono presentate per la prima volta in questo libro
con i loro nomi in sardo, in italiano, in inglese, in francese e con le
denominazioni scientifiche, seguono le descrizioni di fiori e frutti,
degli habitat di appartenenza e gli usi gastronomici delle erbe
selvatiche, dai più comuni ai più raffinati.
L’opera è particolarmente ricca di notazioni di
carattere storico. Colpisce, per esempio, la ricetta tratta
dall’Herbario Nuovo di Castore Durante (Roma, 1585) che
propone un piatto strano, il “tronchetto di ferula alla
brace”. Una serie di suggerimenti pratici e un nutrito
glossario sardo-latino incoraggiano il lettore a un proficuo
proseguimento delle ricerche.

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Recensione al volume:
Bachisio Porru, Diario di un
sindaco
La
NuovaSardegna
30 dicembre 1999
Rubrica: Società & Cultura
SINDACI NUOVI
“BALENTES”
CONTROLLO DEL TERRITORIO ED EMERGENZA CRIMINALI
di Giangiacomo
Ortu
Sindaco di
Olzai, leader del movimento dei piccoli Comuni, Bachisio Porru propone
in volume articoli ed interventi con i quali ha cercato di creare un
movimento d’opinione sui problemi del territorio. E, davvero,
il suo «Diario di un sindaco» (AM&D
Edizioni, lire 28.000) testimonia dell’incontro e fusione, in
un gesto protratto di generosità civile,
dell’impegno a fare e dell’impegno a capire in un
amministratore che è anche un uomo di cultura.
La cifra del libro è, infatti, quella di dipanare un filo
intelligente di riflessioni sui problemi di un
«luogo». Olzai, che si sviluppa a lettura e
decifrazione dell’intero sistema territoriale
dell’isola. Sullo sfondo la Sardegna del dopo Rinascita, di
un’esperienza di pianificazione approdata ad una crescita
squilibrata dei territori: un’eredità nella quale
si radica ancora la gran parte dei problemi che i sindaci di molti
Comuni piccoli o abbandonati devono oggi affrontare.
All’orizzonte, ma improbabile, un’inversione di
tendenza: la realizzazione – come scrive Porru – di
politiche «protese alla diffusione omogenea
dell’effetto urbano sul territorio, che garantiscono, al
massimo livello istituzionale, un governo delle risorse tale da
costruire una fisionomia del territorio policentrica».
Occorrerebbero, in verità, molta intelligenza progettuale e
molta fermezza di giusti propositi per evitare che le risorse non
fossero ancora una volta attratte dai centri più forti o da
interessi settoriali (lo stesso Porru fa l’esempio
illuminante del «polo tessile»). Certo, da qualche
anno c’è in Sardegna un fermento di progetti sul
territorio, sui «luoghi»; ma è rimasto
senza disegno unitario, mentre il riequilibrio territoriale implica una
visione d’assieme, una sintesi politica. Ma chi oggi
può realizzarla? «Diario di un sindaco»,
nella sua sostanza, rappresenta una critica serrata e impietosa proprio
della classe politica regionale che quando non è disonesta,
è troppo spesso incapace e confusionaria. Ferocemente, Porru
l’assimila a quei personaggi di Musil persi a discutere di
una fumosa e sterile Azione Parallela, metafora della Vienna del
tramonto asburgico, vera Cacàina anche per i suoi
contemporanei.
Qualche tempo fa un amico osservava che la Sardegna ha oggi degli
amministratori locali spesso valenti e coraggiosi (non saranno loro i
nuovi «balentes»?), certo migliori che in passato,
mentre l’attuale élite regionale è
persino inferiore a quel notabilitato e patronato democristiano che ha
fatto dell’istituto automobilistico un apparato di potere
autoreferenziale e distante dai cittadini.
Ma «Diario di un sindaco» aggiunge anche
un’altra verità: e cioè che la
solitudine dell’amministratore locale non ha colore politico,
ed è soprattutto l’effetto di una vacanza dello
Stato, del suo largo e crescente disimpegno. Il rafforzamento del
profilo amministrativo del sindaco, e in genere dell’ente
locale, è andato di pari passo con quella smobilitazione
dello stato sociale e quella ristrutturazione dei servizi pubblici che
hanno prodotto da un lato un assottigliamento relativo delle
disponibilità finanziarie delle amministrazioni e
dall’altro la rarefazione dei servizi d’interesse
pubblico (scuole, uffici postali, preture, sportelli bancari, ecc.). E
ciò senza che l’ente locale sia abilitato a
incidere su decisioni che possono segnare il destino. Il potere e
l’autonomia delle amministrazioni sono insomma cresciute in
una sorta di vuoto istituzionale, con un riflesso soggettivo di
isolamento e di abbandono in chi deve far fronte non solo a pressioni
illegittime, ma più spesso a domande legittime che restano
egualmente deluse.
La situazione è più insostenibile, sotto il
profilo morale e psicologico, nei territori nei quali la mancanza di
gruppi formali e di organizzazioni e di istituzioni in grado di mediare
e incarnare aspettative e domande sociali (ne ha scritto qualche tempo
fa, su questa stessa pagina, Benedetto Meloni) fa sì che
l’amministratore locale divenga l’unico
referente-interlocutore dal quale pretendere una risposta a qualunque
problema. In questi territori, il rapporto con l’esponente
del governo locale tende perciò a personalizzarsi e
drammatizzarsi. Ma, più in generale, si verifica anche che
gli interessi individuali e di gruppo fanno sempre più aggio
su quelli collettivi, producendo l’increnamento di quel senso
comunitario che riusciva un tempo, in qualche modo, a contemperare le
ragioni private con quelle comuni. E a questo punto può
anche aprirsi il discorso su quella «violenza
diffusa» di cui gli attentati contro gli amministratori (sui
quali c’è uno studio recente di Marco Zurru,
allievo di Gianfranco Bottazzi) e i sequestri di persona sono soltanto
le emergenze più pubblicizzate, e certo più
incidenti sotto il profilo etico e civile. Il nuovo sequestro
«breve», escogitato dall’inesauribile
inventiva criminale per aggirare l’ostacolo della legge sul
blocco dei beni, è in effetti una contaminazione tra il tipo
più tradizionale di sequestro e la pratica metropolitana
dell’assalto allo sportello (bancario o altro). Ci sembra che
questo dovrebbe suggerire l’abbandono definitivo del vezzo
intellettuale a conferire al sequestro di persona i caratteri (e quasi
l’alone) della tradizionalità (a radice sociale e
persino «etnica»). In realtà, nelle sue
diverse comparse storiche, da fine Ottocento, il sequestro è
sempre stato un fenomeno moderno e «fungibile», nel
senso che, per quanto possa acquisire specifici connotati ambientali,
resta tuttavia una forma non locale di criminalità.
Sotto questo profilo, in quanto manifestazione moderna di violenza, il
sequestro di persona è forse meno terribile di
quell’altra forma di violenza, questa sì
tradizionale, legata agli assetti strutturali dell’economia
rurale isolana, che si manifesta nella competizione extra-legale (o
pre-legale) per il controllo della terra. Sono le «chiudende
del Duemila» di cui parla Porru, in riferimento
all’ipoteca che alcune famiglie o «ereus»
fanno gravare sulle terre «comuni» (a
titolarità demaniale o comunale), e che in alcuni paesi
delle Barbagie e dell’Ogliastra è stata un
impedimento sostanziale non solo alla costituzione dei parchi, ma allo
stesso governo del territorio da parte dell’ente locale. In
Sardegna per la terra si è sempre ucciso molto, e si uccide
ancora, ed è davvero sorprendente la
superficialità con cui certi portavoce
dell’ambientalismo ufficiale attribuiscano proprio ai sindaci
la responsabilità di frapporre ostacoli alla costituzione
dei parchi. Abbiamo già scritto – e ci sembra che
Bachisio Porru concordi – che lo Stato non può
risolvere questo problema «tagliandone le radici e i
rami», e cioè con un intervento meramente
centralistico ed imperativo. Il pericolo è che
l’impasse a cui si è così approdati
giovi a quelle numerose cordate di politici e di speculatori
già pronte ad insinuarsi nel malessere delle popolazioni per
spezzare via ogni ragione ambientalista e cementificare allegramente le
coste.

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Il
Provinciale oggi
1 gennaio 2000
Rubrica: Cultura Costume
LA CRISI DEI
PICCOLI COMUNI DELL’INTERNO, DELLA VERA SARDEGNA
IN UN LIBRO DI BACHISIO PORRU
Nato a Olzai nel
1951, è Sindaco dello stesso Comune dal 1994. Docente di
storia e filosofia, è fondatore, assieme ad altri Sindaci,
della Consulta Nazionale e Regionale dei Piccoli Comuni. Collabora con
quotidiani e riviste.
È un grido d’allarme che racconta storie vere,
storie di tutti i giorni fatte di piccoli e grandi problemi che si
sviluppano in ambienti difficili, dove uno Stato patrigno non
è riuscito a risolvere problemi atavici e anzi ha fatto
crescere la diffidenza verso tutte le istituzioni.
Le pagine di Porru lasciano traboccare il senso di sconforto di un
Sindaco, come tanti altri, mandato allo sbaraglio in prima linea a
governare la miseria e il malessere sociale dei paesi
dell’interno che, sempre più deprivati dei servizi
fondamentali, inducono i giovani ad abbandonarli per inseguire il
miraggio di un’altra Sardegna, quella delle città
sempre più affollate e dei centri costieri, nuovo Eldorado
del turismo isolano. Porru analizza punto per punto i problemi, le
origini del malessere e della violenza ma non si limita ad una mera
elencazione dei mali che avvelenano i piccoli Comuni e men che meno si
abbandona ad inutili piagnistei. Il Sindaco, dopo una illuminata
diagnosi, propone una terapia condivisibile fino
all’ovvietà pur nella consapevolezza della
difficoltà di strappare l’antidoto dalle mani dei
poteri forti centrali.
“L’allarme sulla gravissima crisi demografica che
sconvolge in profondità l’equilibrio sociale,
economico e culturale della Sardegna – scrive Porru
– è stato lanciato con grande forza ed in varie
occasioni dagli amministratori dei centri dell’interno che
subiscono più di tutti gli effetti devastanti di quel
fenomeno. Un allarme che è stato positivamente recepito
dalla stampa e dall’opinione pubblica. Tanto che le tematiche
dello spopolamento sono diventate oggetto di una riflessione politica e
culturale ad ampio spettro. Sembra tuttavia che, come spesso avviene,
basti consumare la notizia per quietare gli animi. Poi progressivamente
arriva la fase dell’oblio, della rimozione, prima ancora che
qualcosa si sia fatto di concreto per porre rimedio al male. Viviamo
nella società della comunicazione globale, il fatto
è sostituito dalla parola. Siamo inondati da un mare verboso
spesso sussunto senza adeguato spirito critico. Al dominio del fatto
sembra sostituirsi il dominio della parola. Che il reale prosegua il
suo corso… ai contemporanei sembra bastare
l’esorcismo della parola. Come spiegare altrimenti che dopo
tanta convergenza di analisi e di intenti non vi sia un concreto atto
di governo, ad alcun livello, che persegua intenzionalmente una
concreta inversione di tendenza? Che si ponga l’obiettivo
concreto di contenere prima, e poi di invertire quella tendenza
demografica sempre più impetuosa nello svuotare
l’interno per popolare in maniera sempre più
caotica l’hinterland cagliaritano, le coste ed alcuni altri
centri amministrativi e produttivi?”
Un grosso punto interrogativo, cui lo stesso professor Porru tenta di
rispondere nel seguito delle pagine. Il libro del Sindaco conclude con
dieci “parabole”, brevi racconti, autentiche
pennellate di colore locale, che portano il lettore a riflettere con
quale patrimonio di cultura e tradizioni popolari si stia rischiando di
perdere per sempre i contatti. Il libro si legge d’un fiato,
anche grazie al linguaggio facile e scorrevole, come un racconto,
seppure modularizzato in una sorta di articoli giornalistici ma, vista
la grande quantità di dati di cui è infarcito, si
configura anche come testo da consultazione.
Il libro è stato presentato a Sanluri venerdì
dieci dicembre scorso per iniziativa del sindaco di Furtei Ignazio
Congiu, che fa parte anche del coordinamento dei piccoli Comuni. Alla
presentazione hanno dato il loro contributo, oltre allo stesso Congiu,
Gian Giacomo Ortu dell’Università di Cagliari e i
giornalisti Ottavio Olita e Gerardo Addari.

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Recensione al volume:
Enrica Delitala, Novelline
popolari sarde dell'Ottocento
Il Messaggero
sardo
7 gennaio 2000
Rubrica: Cultura
MAGICHE FAVOLE SARDE
LE FOLE: COMUNICAZIONE ORALE E RACCONTO FANTASTICO.
ENRICA DELITALA PUBBLICA
LE NOVELLE DELL’ARCHIVIO COMPARETTI.
UN IMPONENTE LAVORO DI RACCOLTA E TRASCRIZIONE DI NOVELLE
DELL’800
di Eugenia Da
Bove
Sono state
recentemente pubblicate dalla AM&D Edizioni in collaborazione
con l’Isre (Istituto Superiore Regionale Etnografico) le
Novelline Popolari Sarde dell’Ottocento, una raccolta di
fiabe della tradizione orale sarda.
Frutto di un lungo lavoro di ricerca di Enrica Delitala, docente di
Storia delle Tradizioni popolari presso
l’Università di Cagliari, le Novelline furono
raccolte fra il 1878 e il 1881, per conto dello studioso Domenico
Comparetti, da un suo allievo di origini sarde, Ettore Pais. Questi,
laureatosi in Lettere a Firenze nel 1878, giunse subito dopo a Sassari
dove per tre anni insegnò al Liceo-Ginnasio Azuni.
All’epoca giovanissimo, (era nato nel 1856 a Borgo San
Dalmazzo), condusse, durante la sua permanenza a Sassari, un lavoro di
raccolta e trascrizione di fiabe e racconti che il Comparetti intendeva
inserire nel più ampio progetto di una raccolta che
rappresentasse la variegata realtà fiabistica italiana. Tale
raccolta diede poi luogo nel 1875 a un’opera, le Novelline
popolari italiane, una selezione della ricerca condotta in varie
regioni d’Italia.
Nella sua ricerca il Pais si avvale di una rete di “aiutanti
in campo” costituita prevalentemente da professori, maestri e
studenti che – in vari paesi della Sardegna Centro
Settentrionale come Sorso, Codrongianus, Villanova Monteleone, Bono,
Ghilarza – raccolsero e trascrissero in lingua originale 105
fiabe. Esse costituiscono perciò, oltre che un affascinante
esempio di affabulazione dell’immaginario favolistico e
mitologico sardo, un importante documento linguistico.
Lo stesso Italo Calvino, nell’introduzione alle sue Fiabe
Italiane, a proposito della Sardegna sottolineava come il materiale
sardo del Fondo Comparetti rappresentasse una fondamentale raccolta che
pubblicata avrebbe colmato una lacuna nella scarna testimonianza della
tradizione orale sarda. E riferendosi alle poche raccolte esistenti di
area sarda notava:
«La Sardegna non ha grandi raccolte; ma il modo di raccontare
triste, magro, senza comunicativa, e pur sempre con una lama
d’ironia, mi pare caratteristico
dell’isola». Ora se un tratto emerge dalla raccolta
curata da Enrica Delitala è invece quello della grande
vivacità del racconto che, soprattutto nella versione
originale (ogni fiaba ha poi una traduzione in italiano curata dalla
stessa Delitala) riflette la ricchezza della lingua parlata e di un
mondo carico di immagini e suggestioni. Inoltre come nota Delitala
nella sua introduzione alle Novelline:
«Situazioni, forme linguistiche, incisi, strutturazione del
discorso, formule di apertura e chiusura, costituiscono altrettante
spie del contesto e dell’ambiente locale, di un mondo in cui
la comunicazione orale ed il racconto magico erano parte della
quotidianità».
I due volumi delle Novelline non sono solo un importante documento per
gli studiosi e gli appassionati della cultura popolare sarda, ma un
occasione per tutti, bambini e adulti, di immergersi in un mondo
affascinante in cui magia, fantasia e realtà si fondono per
insegnare e divertire ancora oggi il lettore, come un tempo succedeva a
grandi e bambini riuniti intorno al focolare o seduti fuori al fresco
delle notti d’estate ad ascoltare le fole.

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SENZA TITOLO
di Ignazio Lecca
“Tutti
gli individui dovranno fare appello alla loro diversità
regionale, alla loro cultura specifica e alle loro tradizioni al fine
di aumentare la loro competitività e di trovare il modo di
uscire dall’informazione globale”.
Cade a proposito la raccomandazione di Carlo Rubbia, mentre compaiono
nelle vetrine e sugli scaffali delle librerie i due volumi curati da
Enrica Delitala delle Novelline Popolari sarde dell’Ottocento
per le Edizioni AM&D ed Isre. Si tratta dell’edizione
integrale dei manoscritti originali, provenienti in gran parte dalla
Sardegna Centro-Settentrionale e raccolti a cura di Ettore Pais,
conservati nel fondo Comparetti del Museo Nazionale delle Arti e
Tradizioni Popolari di Roma. L’uscita delle Novelline ci
aiuta a dire che una popolazione può essere compresa solo
guardando alla storia delle sue idee, cercando di capire le radici di
atteggiamenti tuttora diffusi e comprenderli nelle loro conseguenze
culturali morali e politiche profonde.
Non è vero, dunque, che siamo eredi indegni del nostro
passato. Nessuna reazione è mai eccessiva su un piano dei
risvegli. In questo, infatti, non scherziamo. Basta considerare la mole
dei due volumi che raccolgono le novelline.
Rispetto a queste osservazioni il ricco materiale che la Delitala ha
tratto dal silenzio e dalla polvere degli archivi romani e restituisce
alla nostra lettura, costituisce un punto fermo della letteratura
popolare sarda, che ha avuto il pregio e il merito di salvare la
lingua. Materiale che faceva parte in qualche modo del mito. Il mito
resiste, ed è giusto che sia così,
perché si tratta di un genere di cui abbiamo ancora bisogno,
basta renderlo più realistico, più plausibile. Di
certo ci aiuterà il sottile nesso tra il conoscere e il
ricostruire la natura secondo nuove regole.
Un aspetto importante di queste novelle è quello di
presentarci l’interagire di “sapere” e
“potere” nel momento in cui il narratore popolare,
spesso sconosciuto e magari analfabeta, si impegna nello sviluppo del
racconto come a una interpretazione della natura.
“Sapere” e il mezzo per “poter”
raccontare, per “poter fare”. È un
rapporto che si rivela chiaramente a racconto concluso. Ogni narratore
conosce i limiti della propria capacità di affabulazione e
si muove entro quei confini con abilità e naturalezza, senza
forzarne gli equilibri. “Sapere” e
“potere” assolvono, alla fine, una funzione
unitaria. Conclusa la narrazione il narratore abbandona le vesti del
mito e rientra nella sua attività reale, senza sforzo di
adattamento.
Qual’è stato il senso di questa operazione? La
riscoperta del meccanismo del lavoro del narratore che imita e innova,
non rifiuta l’antico essendo anche lui antico, né
il nuovo vivendo nel nuovo, ma consulta in sé qualcosa di
eternamente attuale.
Le favole sono impasti convenzionali di storia e mito che venivano
raccontate ad ascoltatori in qualche modo inseriti o partecipi dei
luoghi del mito, le quali a loro volta raccontavano ad altri, e questi
ad altri ancora. Si attivava una sorta di circuito narrativo (o
distributivo), funzionale allo sviluppo storico del raccontare, anche
se il racconto iniziale subiva, nei passaggi ripetuti, influenze,
apporti nuovi, varianti, fino a diventare un
“altro” racconto. Nella favola ciò che
conta e la risposta umana, emozionale e intellettiva, tenendo conto che
le emozioni variano e così le sensibilità
culturali. Infine è sempre il tempo a vagliare e a suggerire
la misura di nuovi approcci e nuovi ascolti! Mi sembra che questo vasto
repertorio che ci è stato riconsegnato vivo e palpitante,
abbia il merito di proporre in un insieme completo e argomentato
l’intero “corpo delle novelline sarde”
presenti nel fondo Comparetti. La struttura dei due volumi consente di
muoversi al loro interno secondo un percorso agile, di saltare in
avanti e tornare indietro, di creare un proprio autonomo percorso di
lettura, sempre guidati dalla dotta introduzione e dalle note della
Delitala, tanto più che, accanto ai testi originali,
è sempre presente l’ottima traduzione italiana ad
opera della stessa Delitala.
La pubblicazione di questo ingente materiale impone altre
considerazioni. Quello che troppi curiali italofoni, sbrigativamente,
tendono a considerare come materiale di periferia rispetto alla cultura
egemone “anglomane”, ai tempi della
“raccolta” dei testi era tutt’altra cosa:
formava il corpo della cultura di una vasta area dell’isola,
ma che potrebbe valere per tutta l’isola. Per quel che ci
riguarda da vicino, costituiva l’essenza stessa della cultura
dei sardi, nella lingua allora comunemente parlata, il sardo appunto
lingua eminentemente orale. Quello che appare come un mondo
assolutamente immobile (rispetto alla crescita delle altre regioni, o
nazioni), invisibile è, talora, invivibile, un mondo di pura
disgregazione sociale, oggi ci sorprende, ci stupisce e ci meraviglia.
Quello era il nostro mondo, ben visibile e conosciuto. Ora che queste
novelline ci sono state restituite, l’avvicinarci
dell’anno 2000 ci fa sorridere per nuove paure Millenariste.
Allora erano altre le paure. Mille e non più mille, finisce
il mondo! Quale mondo? Qual’è la novelletta che
manca nel compendio? La paura che blocca il fabbro mentre forgia il
cancello perché il cancello non servirà
più? La paura che immobilizza il panettiere che impasta la
farina per farne pane, perché domani non servirà
più mangiare? O la paura che toglie il latte alle mucche
perché nessun latte servirà più?
Insomma tutto il mondo che si ferma. Piuttosto, un mondo che non esiste
più, perché l’allevatore non munge le
vacche, provvede una mungitrice meccanica. Il pane viene impastato
meccanicamente e basta un unico forno industriale a sfamare una
città. Non occorrono più cancelli, bastano
sbarramenti elettronici, cellule fotoelettriche, computer gestionali.
Un mondo meccanico e senza cuore.
La lettura delle novelline, per fortuna, ci aiuta a vivere un momento
di rinnovata attenzione al mondo del lattoniere, del panettiere,
dell’allevatore, alla sua realtà più
aderente ai bisogni dell’uomo, alle sue mancanze e ai suoi
slanci, nei paesi e nelle città dove tutti si conoscevano e
sapevano tutto di ciascuno.
Si può onestamente affermare che Enrica Delitala non ha
messo in atto alcuna ricetta straordinaria. Straordinaria è
la costanza del suo lavoro. Il materiale pubblicato esisteva
dimenticato nei depositi del Museo delle Tradizioni popolari di Roma.
Dimenticato nella memoria della gente comune ma non in quella degli
studiosi vigilanti. L’operazione significativa è
stata quella di riportare alla luce non una o dieci novelline e fiabe
dei miti, ma tutto un corpus di narrativa popolare, raccolta dalla viva
voce di uomini e donne che convivevano con quel materiale, era
l’essenza della loro cultura, delle loro modalità
ed esigenze di vita. Era, in sostanza, il frutto di una
creatività quasi ancestrale, perpetuata nei secoli da una
generazione all’altra di uomini e donne, bambini e vecchi che
sentivano che quelle storie erano congeniali al loro sistema di vita,
rappresentavano in qualche modo la loro struttura culturale. Struttura
e non sovrastruttura. Ed è in quella struttura che trovava
supporto la creatività dei narratori popolari. Tutto
ciò Enrica Delitala lo sapeva, essendo il pane della propria
disciplina di studiosa e di ricercatrice attenta e paziente. Ed
è andata a scavarne i frutti, da archeologa delle parole. La
Delitala sa quanto sia fondamentale intuire lo spirito del tempo,
capirlo a fondo, fuori ed oltre certe mode culturali, passeggere e
capricciose quanto un soffio di vento. Guai a is araxis, che hanno
devastato il nostro tempo. La nostra studiosa sa che occorre una
considerazione retrospettiva, uno sguardo critico
all’antefatto, per dare un inquadramento complessivo e non
unilaterale al corpus di novelle e fiabe. Questo è tanto
più fondamentale in un secolo di grossolana divinizzazione
della scienza, in cui la scienza pare avere preso in mano le redini
della società. Che la scienza ci abbia traditi? No, la
scienza non ci ha traditi, ma lo scientismo sì.
Non tutti i problemi dell’uomo son misurabili in senso
matematico. Ora assistiamo a una sostanziale modifica dei modelli di
crescita, di maturazione: l’infanzia,
l’adolescenza, la maternità, il lavoro, la
carriera e così via stanno cambiando configurazione,
scansione temporale, valore relativo alla vita. Certamente si tratta di
un confronto impossibile tra l’ambiente umano, civile,
economico e culturale odierno e quello delle novelle popolari
dell’Ottocento. Il dialogo tra le generazioni, che
è sempre stato difficile, sta diventando ancor
più difficoltoso, la vita è piena di incertezze,
di logiche non dominabili, di fughe in avanti. Alla fine del secondo
millennio cristiano il mito del progresso e la cieca fiducia
dell’illimitata perfettibilità umana possono
condurre, come di fatto hanno condotto, sull’orlo del
disastro morale e spirituale.
Allora il lavoro di Enrica Delitala, confrontato alle aspettative del
nostro tempo, non è servito solo a riesumare un
“corpo scomparso” è servito, serve, a
conoscere problemi e situazioni umane che si rivelano sotto i
paludamenti della fiaba della novellina, ma sono problemi reali,
situazioni umana comprovabili: l’esigenza di giustizia, il
riconoscimento effettivo, la morte nuda e cruda come era allora; non la
morte asettica mascherata e igienicamente spogliata di
umanità qual’è oggi.
Campavano male gli uomini di quel tempo: pane guadagnato con il biblico
“sudore della fronte”, malattie, miseria,
pestilenze, superstizioni, credenze popolari, sudditanze varie. In
questo contesto germogliarono le novelle.
Diverso il mondo dell’uomo europeo di oggi, affrancato dalla
miseria bruttale circondato di beni e oggetti che gli permettono di
comunicare, spostarsi, nutrirsi, svagarsi. Per l’uomo di oggi
un valore assoluto è la comunicazione. Può avere
o non avere un sentimento religioso, un partito o un’idea
politica, essere monogamo o poligamo, può avere o no amore
di patria, ma in ogni modo cerca di aumentare la comprensione di
ciò che lo circonda e su queste conoscenze costruire
attrezzi, macchine, in una parola sostenere il progresso
tecnologico.
Ci affacciamo al terzo millennio con questo capitale di storia, che ci
propone il problema del recupero del significato
“umano” della vita. Noi sardi non andiamo a mani
vuote incontro allo spirito del tempo, conosciamo l’esigenza
di recuperare il significato umano della scienza, perché
queste novelline hanno il pregio di essere state pensate e raccontate
al servizio dell’uomo e delle sue fondamentali esigenze di
senso.

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Recensione al volume:
Martino Contu, I martiri sardi
delle Fosse Ardeatine. I militari
Nuovo Cammino
n. 2, 15 gennaio 2000
I MARTIRI SARDI
DELLE FOSSE ARDEATINE
UN LIBRO-TESTIMONIANZA DI UN GIOVANE STORICO DI VILLACIDRO
di Italo Cuccu
L’autore
Martino Contu è un giovanissimo docente e giornalista di
Villacidro. nonostante la giovane età è
già autore di numerosi lavori di ricerca storica, con
preferenza spiccata per il periodo concernente la seconda guerra
mondiale.
I fatti e le persone presenti nel libro. Il 23 marzo 1944 a Roma, in
via Rasella, un gruppo di militari tedeschi del terzo battaglione SS
‘Bozen”, perse la vita in seguito a un attentato ad
opera dei partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica.
Il giorno seguente, 24 marzo, si consumò la rappresaglia,
con il martirio di 335 italiani, fucilati nelle fosse Ardeatine, sulla
via Appia.
Il Maggiore Kappler e il Capitano Erik Priebke delle SS misero in atto
“una delle vicende più disumane di tutta la nostra
resistenza”: applicarono una terribile disposizione del
Comando tedesco, secondo la quale per ogni soldato tedesco ucciso
dovevano morire 10 italiani e in questo caso il conto fu fatto in
eccesso!
I Martiri sardi in questo eccidio furono ben 9, cioè 4
civili (Salvatore Canalis, Gavino Luna, Giuseppe Medas e Antonio
Ignazio Piras), il rivoluzionario Sisinnio Mocci di Villacidro e
appunto i 4 militari, sui quali spazia il libro-testimonianza di
Martino Contu.
A distanza di 55 anni, l’autore ricostruisce, con dovizia di
particolari e in modo esemplare, “le biografie, prima in
Sardegna e poi nei fronti di guerra, dei 4 militari sardi”:
Pasqualino Cocco (Sedilo, 21.01.1920), Sergente pilota
dell’aeronautica; Agostino Napoleone (Carloforte,
14.09.1918), sottotenente di vascello della Marina; Candido Manca
(Dolianova, 31.01.1907) e Gerardo Sergi (Portoscuso, 25.03.1917),
Brigadiere dei Carabinieri.
Nello spazio di 380 pagine, sono documentati la loro tragica fine e
“il ruolo di questi militari nelle file della
clandestinità e della Resistenza – in un contesto
complessivo degli avvenimenti storici concomitanti –,
attraverso la consultazione degli Archivi pubblici e la
generosità dei parenti, che hanno messo a disposizione le
carte familiari e gli episodi inediti”.
Perché furono uccisi, proprio loro? Unicamente
perché si trovarono allora reclusi nel Carcere di via Tasso
o di Regina Coeli: “le porte delle celle si aprirono per
essere condotti alla Fosse, le mani legate dietro la schiena,
spintonati su malandati carrozzoni, fino all’uccisione,
insieme ad altri sventurati, tutti incolpevoli dell’attentato
di via Rasella, che aveva fatto esplodere la ferocia nazista”.
Riflessioni finali. Martino Contu presenta una ricostruzione di
avvenimenti tragici, ancora recenti, mentre è in corso
“una stagione caratterizzata da reviviscenza del dibattito e
del confronto storiografico, ma anche da conflitti tra la galassia
degli studiosi italiani che riflettono i contrasti
dell’attualità politica”.
Nel trattare questa materia, indubbiamente coinvolgente, il nostro
Autore – pur così giovane – dimostra
maturità e di essere uno storico rigoroso, accurato nella
ricerca della documentazione e nella proposta dei riferimenti
bibliografici.
Al libro è acclusa una significativa testimonianza
fotografica e di documenti, spesso inediti.

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L’Unione
Sarda
18 febbraio 2000
Rubrica: Cultura
IN UN LIBRO EDITO DALLA AM&D, MARTINO CONTU
RICOSTRUISCE LA STORIA DEI QUATTRO MILITARI FUCILATI DALLE SS DOPO
L’AGGUATO DEI PARTIGIANI IN VIA RASELLA
TUTTI I GIOVANI ASSASSINATI FACEVANO PARTE DEI GRUPPI IMPEGNATI NELLA
RESISTENZA CONTRO IL NAZISMO. MA, COME GLI ALTRI, VENNERO SCELTI A CASO
di Carlo Figari
Nel clima di
revisionismo che coinvolge storici e politici si è tentato
di giustificare la strage di 335 vittime delle Fosse Ardeatine come la
sola e diretta e conseguenza dell’attacco militare di via
Rasella. Il 23 marzo 1944 i partigiani dei gruppi di azione patriottica
fecero saltare in aria un camion con 33 soldati del 3°
battaglione delle SS “Bozen”. In realtà
nella Roma occupata dai tedeschi i fatti di via Rasella furono il
pretesto dell’eccidio che seguì immediatamente
dopo, nel buio delle Cave Ardeatine. Non si trattò quindi,
dell’esecuzione dei diretti responsabili
dell’azione partigiana, ma di una strage premeditata contro
vittime innocenti ed inermi. Una carneficina di uomini, giovani e
vecchi, molti dei quali militari, che erano detenuti nelle carceri di
Regina Coeli e di via Tasso.
Settantacinque erano ebrei e diversi erano i cittadini comuni estranei
alla Resistenza, arrestati durante il rastrellamento seguito
all’attentato. Tra questi anche alcuni sardi. Le storie di
gran parte delle vittime delle Fosse Ardeatine aspettano ancora di
essere scritte. «Perché è solo
attraverso la ricostruzione del percorso biografico di ciascuno di
loro, che è possibile far luce sui tanti punti oscuri e poco
noti della Resistenza romana»: è questa la tesi
che un giovane studioso cagliaritano, Martino Contu, porta avanti nel
suo libro I Martiri sardi delle Fosse Ardeatine (AM&D Edizioni,
L. 28.000). Appena pubblicato ha subito suscitato interesse e anche un
acceso dibattito attorno ad una pagina ancora discussa della storia
recente. Chiuso definitivamente il caso Erik Priebke (con la condanna
dell’anziano ex ufficiale delle SS all’ergastolo) e
archiviata anche l’inchiesta contro i partigiani attentatori,
non resta che l’esame storico di quel tragico evento.
Martino Contu aveva già affrontato l’argomento con
un libro su Sisinnio Mocci, il combattente di Villacidro trucidato
anch’egli alle Fosse Ardeatine. Mocci fu un autentico
personaggio. Nel 1927 emigrò in Sudamerica, poi
andò a vivere a Parigi e quindi a Mosca dove rimase sino al
1937. Era un militante comunista e nel 1939 combatté
volontario nella guerra di Spagna con la brigata internazionale
“Garibaldi”. Rientrato in Italia finì al
confinio di Ventotene.
Nell’estate del 1943 lo ritroviamo a Roma nelle file della
Resistenza nel ruolo di capo di una banda partigiana. Si nascondeva
nella villa di Luchino Visconti fingendosi maggiordomo. Lo scoprirono e
imprigionarono nella famigerata pensione Jaccarino dove fu a lungo
torturato, ma non rivelò mai i nomi dei suoi compagni.
Consegnato alle SS di via Tasso, il 24 marzo 1944 finì alle
Fosse Ardeatine.
Ma il libro di Contu non si ferma sulla storia di Sisinnio Mocci, ormai
nota, quanto su quelle inedite di quattro militari sardi che hanno
subito la stessa tragica sorte: Pasqualino Cocco, sedilese, sergente
pilota dell’Aeronautica; Agostino Napoleone, carlofortino,
sottotenente di vascello della Marina; i due brigadieri dei
carabinieri, Candido Manca di Dolianova, e Gerardo Sergi di Portoscuso.
Il corpo di Pasquale Cocco venne rinvenuto in posizione contorta
sull’asse e con i polsi legati. Aveva il cranio e il torace
frantumati. La salma venne identificata da Alessandra Floriani, una
giovane che l’avviatore aveva cominciato a frequentare a
Roma, e dall’ultima lettera scritta a lapis che gli fu
ritrovata in tasca.
Subito dopo l’armistizio Cocco era stato costretto ad
arruolarsi nel battaglione repubblichino “Buccari”,
ma alla prima occasione tagliò la corda dandosi alla
macchia. Successivamente si mise in contatto con il personale
dell’Ufficio assistenza sardi che il neo sottosegretario alla
presidenza del Consiglio della neonata Repubblica di Salò,
il sardo Francesco Barracu, aveva fatto aprire nella sede del collegio
militare per raccogliere (con le buone o con le cattive) tutti i sardi
sbandati.
Nella trappola cadde anche Cocco: quando giunse l’ordine di
partire per il Nord il giovane si tagliò le vene. Per quel
gesto fu consegnato ai tedeschi che lo rinchiusero in via Tasso. Si
ritrovò in cella con un dirigente democristiano,
l’avvocato sardo Giorgio Mastino del Rio, sospettato di
essere un fiancheggiatore dei partigiani. Sulla prigionia il penalista
scrisse un libro (Ricordi di via Tasso) in cui rievocò un
tentativo di fuga andato male. Del Rio venne liberato due giorni prima
di via Rasella. Cocco, invece, fu portato alle Ardeatine: aveva 24
anni. A lui Sedilo ha dedicato una piazza mentre una lapide sulla
facciata della casa natale ne ricorda il sacrificio.
Candido Manca apparteneva a una vecchia famiglia
dell’aristocrazia sarda che vantava una significativa
tradizione militare. Il nonno Giuseppe aveva combattuto nelle guerre di
indipendenza (nel 1848 aveva reclutato 400 studenti sardi agli ordini
di Carlo Alberto). Il giovane Candido si arruolò nei
carabinieri. Dopo la guerra in Etiopia ed il congedo si
trasferì a vivere a Roma entrando a lavorare
nell’amministrazione delle strade statali. Con lo scoppio del
conflitto venne richiamato. «All’atto
dell’armistizio – si legge nella motivazione della
medaglia d’oro – allorquando le caserme
dell’arma nella capitale furono invase dalle SS per catturare
i militari italiani, Manca riuscì a fuggire.
Costituì un nucleo di 30 sbandati che fece parte del Fronte
clandestino di Resistenza dei carabinieri. Manca compì
diverse azioni di sabotaggio con grande coraggio. Ma anche lui, insieme
ad altri ufficiali dei carabinieri, fu arrestato e chiuso a Regina
Coeli».
Nei due mesi di detenzione ebbe modo di scrivere alla moglie.
Nell’ultima lettera le inviò queste toccanti
parole: «Ai miei occhi sarai sempre bella e giovane e
t’amerò per tutta la vita». Due giorni
dopo fu trascinato sui camion diretti alle Ardeatine.
Analogo destino attendeva un altro carabiniere sardo, Gerardo Sergi,
nato a Portoscuso e vissuto a Villacidro, Quartu e Cagliari.
All’inizio della guerra si ritrovò in Grecia,
mentre poco dopo l’armistizio entrò a far parte
della banda Caruso, composta tutta da carabinieri. Insieme ad alcuni
commilitoni reduci dalla Grecia costituì una cellula
attivissima. Secondo la ricostruzione fatta da Martino Contu, il
sottufficiale sardo fu tradito probabilmente da una donna bionda, forse
una tedesca. Rinchiuso nelle celle di via Tasso fu a lungo torturato
per estorcerli i nomi dei compagni, ma il giovane resistette
eroicamente. Nel 1949 gli fu conferita la medaglia d’oro.
Infine Martino Contu ripercorre dettagliatamente la vita e il tragico
destino dell’ufficiale di Marina Agostino Napoleone, nato a
Cagliari da una famiglia carlofortina. Dopo l’Istituto
Nautico si imbarcò per la pratica marinara sulle navi
civili. Nel 1940, all’inizio delle ostilità,
entrò nell’Accademia navale dove uscì
con i gradi di sottotenente venendo assegnato alla nave Polluce che
scortava i convogli tra la Grecia e la Libia. La notte del 3 settembre
del 1942 la Polluce venne colpita durante un attacco aereo e
colò a picco: Agostino riuscì a salvarsi.
Successivamente fu assegnato a una squadra di Mas di stanza a La
Maddalena.
Dopo l’8 settembre anche la Marina italiana fu abbandonata in
balia degli eventi. Non c’erano ordini, nessuno sapeva cosa
fare. In quei giorni Napoleone con il suo Mas si trovava a Votri, in
Liguria. Decise di tentare di raggiungere le linee americane a Sud di
Roma o la Sardegna. Scrisse al fratello Carlo: «Non appena
saranno ultimati i lavori al mio Mas rientrerò in Sardegna
perché, se gli eventi dovessero precipitare, desidererei
essere nella mia terra». Ma la Liguria cadde nelle mani dei
tedeschi spingendo Napoleone a fuggire a Roma insieme a due amici
ufficiali.
I tre, giunti nella capitale, presero contatto con il Fronte
clandestino di Resistenza della Marina. Il 15 marzo Napoleone, con i
due amici ufficiali Semini e Zironi, furono sorpresi nella loro
abitazione, in viale Liegi. Secondo le testimonianze raccolte da
Martino Contu, i tre stavano giocando a carte quando di colpo si
spalancò la porta e le SS fecero irruzione
nell’appartamento. Erano stati traditi da qualcuno che li
conosceva molto bene, forse da un sottufficiale della Marina. Furono
portati in via Tasso, torturati e infine alle Ardeatine.
Nel documentatissimo libro, Contu ha dedicato un’ampia parte
alle note e alla bibliografia in cui raccoglie un lavoro di minuziosa
ricerca durata diversi anni. Questa opera va a colmare un vuoto nella
storia dei sardi morti per la Resistenza restituendo alla memoria
collettiva la biografia di quattro eroici giovani.

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Recensione al volume:
Giancarlo
Nonnoi, Saggi
galileiani. Atomi, immagini e ideologia
La Nuova
Sardegna
30 marzo 2001
Rubrica: Società & Cultura
Nei suoi «Saggi» dedicati allo
scienziato
Giancarlo Nonnoi ne ripercorre le fortune editoriali
GALILEO E IL
SUO BEST-SELLER
E L’INQUISIZIONE FAVORÌ LA DIFFUSIONE DEL
«DIALOGO»
Tirature da mille copie
Per l’epoca erano numeri eccezionali
di Roberto Paracchini
Cagliari. Elia
Diodati e Matthias Bernegger sono due signori del Seicento a cui
Galileo Galilei deve molto. Senza di loro, la principale opera di
Galileo, il «Dialogo sopra i due massimi sistemi del
mondo», non avrebbe avuto la fortuna e il peso che ha
incontrato anche nel Seicento. Formatosi nella Ginevra calvinista,
Diodati era spirito cosmopolita (aveva, tra le altre cose, promosso la
pubblicazione della storia del Concilio di Trento di Paolo Sarpi) e
convinto fautore di una visione copernicana dell’universo.
Matematico e Rettore dell’Università di
Strasburgo, Bernegger si sobbarcò la non facile traduzione
latina del «Dialogo» (pubblicata, inizialmente in
volgare, l’idioma toscano).
Come accennato, la fortuna di Galileo Galilei, nel suo tempo, deve
molto ai due contemporanei del maestro pisano. Nel terzo millennio
è facile parlare di Galileo, dopo centinaia di traduzioni
delle sue opere nel mondo e decine di migliaia di studi critici. Ma
allora, nel 1632, anno di pubblicazione della prima edizione in volgare
del «Dialogo». Il discorso era diverso. Molto
diverso. C’era di mezzo non solo l’inquisizione, ma
un sistema di comunicazione che rendeva il viaggio e il trasporto delle
merci quasi un’avventura. Oggi la diffusione è
volgarizzazione (in senso galileiano, appunto, in quanto la prima
edizione dei Dialoghi venne stampata – come accennato
– in volgare) passa attraverso sia i canali della
comunità scientifica (riviste specializzate e accreditate).
Che quel complesso sistema chiamato «media», a cui
internet ha dato una irrefrenabile accelerata. Ieri no,
l’avventura della cultura era più avventura:
più difficile e complessa. E la storia di Galileo Galilei e
della sua opera più importante (Il
«Dialogo», appunto) ne è la riprova. I
«novatores» d’Europa, anche quelli non
impediti dall’inquisizione (come i galileisti italiani).
Hanno dovuto aspettare la traduzione in latino del
«Dialogo» (promossa da Diodati e Bernegger) per
rinfrescare le loro menti con la dottrina galileiana.
Un capitolo, il “come” della diffusione del
«Dialogo», poco esplorato come afferma il filosofo
Giancarlo Nonnoi nell’ultimo suo illuminante e documentato
libro «Saggi galileiani, atomi, immagini e
ideologia» (pubblicato da AM&D Edizioni e che
sarà presentato a Cagliari venerdì 30 marzo alle
ore 17 nell’aula Magna della Facoltà di Lettere e
Filosofia, durante un incontro in cui, oltre all’autore,
parteciperanno anche Pietro Redondi
dell’Università di Bologna, e Maria Teresa
Marcialis, dell’Ateneo cagliaritano).
Nell’ampia mole di studi galileiani, spiega Nonnoi,
«meno indagati rimangono invece i movimenti, le strategie e i
percorsi che condussero il “Dialogo” a varcare ben
presto i confini dell’Italia». In questa
prospettiva «lo studio delle edizioni delle opere galileiane
potrebbe fornire un contributo fondamentale o, almeno, lasciare
intravedere le linee generali di un primo tracciato».
Compito, quest’ultimo, che Giancarlo Nonnoi svolge
egregiamente in uno dei quattro saggi del suo lavoro
(«l’Europa e i massimi sistemi. Scienza, ideologia,
dissimulazione»). Nella storia della cultura, e della
storiografia delle idee, queste ultime vengono mostrate per lo
più per la loro correttezza o perfezione sintattica. Meno
spesso per il travaglio che ha portato non tanto alla loro nascita, ma
al loro affermarsi: strumenti e mezzi.
Per capire meglio la battaglia editoriale portata avanti da Diodati e
Bernegger va precisato che la prima edizione del
«Dialogo» (in volgare), poté circolare
solo per cinque mesi: dal febbraio del 1632 mese di pubblicazione,
all’agosto dello stesso anno (quando su sollecitazione del
Papa il maestro del Sacro palazzo apostolico, Nicolò
Riccardi, comunicava all’inquisizione di Firenze il
comandamento» di bloccare immediatamente
l’ulteriore diffusione del libro). Oltre alla persecuzione
dell’inquisizione, poi, le mille copie della prima edizione
del «Dialogo» (molte per quei tempi, stampate
dall’editore fiorentino Giovanni Battista Landini) dovettero
fare i conti con la diffusione della peste, che aveva investito il nord
della penisola, e che ritardava e intralciava il commercio. Nonostante
questi avvenimenti, la prima edizione del «Dialogo»
fu subito un successo editoriale (per quei tempi sia chiaro), tanto che
la richiesta fu decisamente superiore alle copie in circolazione.
Descartes, ad esempio riuscì ad avere l’opera solo
nell’agosto del 1634. Anche allora, insomma,
funzionò la censura. In negativo, innanzittutto, ma anche in
positivo. La messa al bando del libro da parte della chiesa (riportata
in alcune gazzette e bollettini letterari) accese infatti la
curiosità intellettuale ben oltre la penisola. Da qui il
tentativo di intraprendere traduzioni in inglese e francese che
vennero, però, superate da quella in latino promossa e
realizzata da Elia Diodati e Matthias Bernegger.
Va anche detto che la fortuna e la curiosità intellettuale
verso il «Dialogo» di Galileo fu indirettamente
promossa anche dal dibattito tra cattolicesimo e protestantesimo. Non
fu un caso, ad esempio, che gli oneri di stampa – allora
molto superiori agli attuali – dell’edizione in
latino (edita nell’estate del 1635) vennero assunti dalla
Elzevier di Leida, una nota casa editrice olandese, localizzata in
un’area dalla fortissima presenza protestante. Anche allora
poi si avvertiva la necessità di dare amplificazione
all’opera, tanto che nell’ultima fase di stampa
(fatta a Strasburgo), si tentò di fare di tutto per
terminare l’opera nella primavera del 1635: per partecipare
alla mostra del libro di Francoforte (anche se non si tenne per il
rovescio delle armi protestanti a Nordlingen).
L’edizione latina (rintitolata «Systema
cosmicum» o «Systemate mundi» di Galileo)
doveva essere inizialmente di 600 copie, ma poi divennero circa un
migliaio per le numerose richieste. Come accennato la
«voglia» di Galileo si era molto diffusa in Europa,
come sintetizzato indirettamente nella introduzione di Bernegger alla
traduzione in la tino del «Dialogo»: mancanza o
penuria di copie disponibili dell’edizione fiorentina,
difficoltà nei commerci ed esigenza di rendere accessibile
il libro anche al lettore non in grado di intendere la lingua italiana.
In più la censura che, come accennato, divenne un
boomerang.

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Recensione al volume:
Bartolomeo Muggianu,
Meana Sardo ed la grande
trasformazione del Novecento
La Nuova
Sardegna
7 febbraio 2002
Rubrica: Società & Cultura
SOTTO IL
DOMINIO DEI PRINZIPALES
LA MODERNIZZAZIONE DELL’ISOLA VISTA DA UN PICCOLO PAESE
di Gian Giacomo Ortu
Tra montagna e
pianura, ma più contadino che pastorale, Meana Sardo
è tra quei piccoli paesi sardi del Centro Sardegna i cui
equilibri economici e civili sono stati duramente messi alla prova sin
dalla grande emigrazione degli anni Sessanta: 2651 abitanti nel 1961,
2196 nel 1971. Ed è anche tra quei centri che si sforzano da
qualche tempo di ritrovare nuove motivazioni di sviluppo nel ricupero
della propria memoria storica. Già nel 1989 il volume
«Meana. Radici e tradizioni», promosso
dall’amministrazione comunale, aveva prodotto materiali di
indubbio interesse in una prima ricognizione ad ampio raggio del
patrimonio ambientale e storico del paese. La spigolatura talora
disordinata e senza acribia di notizie varie e una visione ancora
armonicistica del mondo tradizionale erano in parte compensate dalla
capacità di lettura delle architetture del territorio e
delle forme urbanistiche espressa dai saggi di Giovanni Lilliu e di
Anacleto Luciano.
Il più recente volume «Meana Sardo e la grande
trasformazione nel Novecento» (AM&D Edizioni, 20,66
euro) manifesta intenti meno ambiziosi sotto il profilo sia tematico
che temporale, ma mette in evidenza un’impostazione
più unitaria e coerente. Al centro della ricerca, coordinata
da Bartolomeo Muggianu, un valoroso e appassionato studioso di recente
scomparso, c’è il lungo e contrastato processo di
«modernizzazione» che anche Meana Sardo –
come tutta la Sardegna – conosce lungo il XX secolo e che
porta, tra l’altro, alla ridefinizione degli assetti
fondiari, con il rafforzamento della maggiore proprietà e un
indebolimento della piccola e della media, ulteriormente penalizzata
dalla riduzione ai minimi termini dell’area interessata dagli
usi collettivi. Nel 1950 il 54 per cento dell’intera
superficie del Comune è nelle mani di 17 proprietari, mentre
il comunale copre soltanto 600 ettari su 7400 complessivi.
Nel cuore della «grande trasformazione» di Meana si
colloca un nucleo ristretto di prinzipales, anzi di ereus –
quali i Mura Agus, i Mura Cabras, i Cadeddu Marras, etc. –
che hanno saputo rinsaldare la loro presa fondiaria sin dalla
metà dell’Ottocento, valendosi anche di
un’oculata politica di scambi e imparentamenti matrimoniali.
Un ruolo eminente nel conferire a questo grappolo di famiglie un peso
anche politico e amministrativo lo gioca Giovanni Maria Mura Agus, un
medico che ricopre la carica di sindaco che ricopre la carica di
sindaco tra il 1874 e il 1921, fungendo da terminale locale del sistema
di potere tessuto nel medesimo lungo periodo da Francesco Cocco Ortu.
Bartolomeo Muggianu guarda anche con spirito critico ai risvolti meno
apprezzabili di questa ipoteca sulla vita di Meana esercitata da poche
famiglie, ricevendo per questo un «buffetto»
postumo dal mensile «Il notiziario» di Giovanni
Marras. Si avverte in verità quasi l’eco di quelle
impostazioni di storiografia «alternativa» che si
affermarono largamente nella sinistra italiana tra gli anni Cinquanta e
Sessanta (da Gianni Bosio a Cesare Bermani a Nuto Revelli), e si
avverte anche il senso di una partecipazione per il destino dei poveri
e subalterni che sa certo di un’altra stagione di valori: ma
sono disposizioni politiche e morali che non guastano,
perché il volume sa aprirsi ad una considerazione
più ampia e non ideologica del mondo e della cultura
contadina e pastorale. Il capitolo sul «lavoro
tradizionale», ad esempio, mette in luce l’enorme
quantità di saperi, competenze, tecniche, abilità
etc., che l’economia cosiddetta
«naturale» richiedeva in merito alla coltivazione
dei campi e delle vigne, all’allevamento dei bestiami da
lavoro, da carne e da latte, alla conservazione e trasformazione dei
prodotti. Ne emerge l’immagine di quell’uomo
incessante-produttore e parco consumatore che non conosciamo
più nell’abbuffata di centri commerciali e di
nuove professioni che restano di frequente puramente virtuali. Ma detto
ovviamente senza rimpianti, perché quell’uomo
viveva con la sua famiglia in case che «sembravano tane di
conigli» e subiva una soggezione senza speranza di
risarcimento.
Bartolomeo Muggianu non c’è più, ma
è auspicabile che il gruppo di ricerca
dell’associazione «S’andala»,
che ha con lui contribuito alla realizzazione di questo bel libro,
sappia proseguire sulla strada di una ricerca locale funzionale ad una
costruzione d’identità che guardi non soltanto al
passato, ma soprattutto al futuro.

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Recensione al volume:
Antonio Sassu, La dinamica
economica di un sapere locale. La coltelleria di Sardegna
La Nuova
Sardegna
6 aprile 2002
Rubrica: Società & Cultura
PER LA NOSTRA
CRESCITA
I COLTELLI TRADIZIONALI MEGLIO DEL PETROLIO
di Mario De
Murtas
Antonio Sassu,
recentemente chiamato alla presidenza del Banco di Sardegna,
è in primo luogo un professore di politica economica. Ed
è proprio con l’occhio dell’economista
che si è accostato al mondo delle lavorazioni tradizionali,
anzi di una in particolare: quella del coltello sardo. Ne è
nato un libro che si avvale dei contributi di due collaboratori,
Antonio Scalas e Simone Atzeni e soprattutto di una bella sezione
iconografica curata da Francesco Marras con le belle immagini dei
fotografi Roberto Graffi e Elio Quattrocchi. Già il titolo,
«La dinamica economica di un sapere locale. La coltelleria di
Sardegna» (AM&D editore, 164 pagine, 25 euro) fa
capire che si tratta di un saggio di politica economica. Un saggio che
sottende un particolare approccio ai problemi dello sviluppo: la
convinzione che il massimo di solidità e
stabilità dei processi di sviluppo nasca dal loro
radicamento nel tessuto locale, come Sassu spiega in questa intervista.
«Tra il ’98 e il 2000 – racconta
– ero coordinatore di un progetto nazionale di ricerca
scientifica finanziato dal ministero su “Saperi locali,
innovazione tecnologica e sviluppo economico” che raggruppava
le università meridionali. Il Meridione è ricco
di saperi locali; saperi diffusissimi tra la popolazione di un
territorio che si sono trasformati in settori produttivi industriali:
l’esempio tipico è il formaggio, addirittura
informatizzato, ma tra questi saperi tradizionali ci sono anche il
pane, il torrone, la bottarga, ovviamente il vino. E
c’è anche il settore del coltello.
All’interno di questo progetto complessivo, proprio lo studio
di quest’ultimo settore è diventato sempre
più appassionante, fino a dare origine a questo
libro».
– Magari lei fino a quel giorno non si era mai
occupato di coltelli.
«È così. Non me ne ero mai occupato. E
invece è nato questo libro che si apre con un esame generale
della produzione italiana dei coltelli, per mettere in rilievo come
questa produzione sia andata gradualmente trasformandosi fino a
lasciare le tecniche produttive tradizionali per adottare quelle
industriali. Molti dei coltelli prodotti in Italia vengono prodotti
attraverso stampi e presse, in produzioni di massa. La Sardegna, forse
o in parte per il suo isolamento, ha mantenuto le tradizioni del secolo
scorso, tra le quali quella certamente più importante
è la forgiatura. In tempi brevi la Sardegna è
diventata una regione leader nel settore del coltello tradizionale,
artigianale, e quindi aveva senso studiarne le caratteristiche. Fatto
questo quadro complessivo, si esamina l’evoluzione storica di
questa produzione a partire dall’Ottocento».
– Anche perché, pare di capire, la
ripresa di questa produzione è in fondo un dato recente.
«Esatto. Abbiamo avuto un periodo particolarmente intenso
nella seconda metà dell’Ottocento, per merito
principalmente dei produttori di Pattada. Nella prima metà
del Novecento c’è stata una caduta della
produzione per la concorrenza da parte dei produttori stranieri, e dopo
la seconda guerra mondiale c’è stata una ripresa
della produzione ad opera di alcuni fabbri che si sono specializzati in
questa produzione».
– Anche attraverso il riuso dei materiali?
«Anche attraverso il riuso: nel
primo periodo del dopoguerra era assai facile trovare balestre di
automobile, soprattutto di automobili tedesche, fatte con acciaio
pregiato. Poi, man mano che cresceva la produzione, si è
passati all’acquisto di acciai particolari».
– Ma in tempi di globalizzazione, questo ritorno
ai saperi locali, che senso ha?
«Proprio in tempi di
globalizzazione il tema del localismo diventa sempre più
attuale, e non mi riferisco solo alle produzioni manifatturiere. In
termini generali possiamo dire che si sente con maggiore forza il
desiderio di riaffermare la propria identità. Non a caso nel
momento in cui si parla della diffusione di una sola lingua di
carattere generale si rafforzano anche le esigenze di valorizzare i
dialetti e le culture locali. In un mondo globalizzato
l’esigenza di rafforzare il localismo anche in termini
produttivi, non è meno su un solo fattore di produzione e un
solo tipo di conoscenze. Il processo di sviluppo economico richiede lo
sviluppo complementare dei fattori di produzione, dei settori e delle
conoscenze. Questo è il punto fondamentale: non si
può pensare che lo sviluppo di una regione, tanto meno di un
paese possa basarsi unicamente su saperi locali. Anche
perché la globalizzazione alla quale accennavamo ci
dà spunti diversi, conoscenze diverse e quindi
possibilità di percorrere differenti traiettorie di
sviluppo. Ma se invece lo sviluppo economico viene visto come processo
sistemico, mettere insieme vari settori, in parte tradizionali e in
parte particolarmente avanzati, è una soluzione saggia oltre
che corretta».
– Parliamo anche delle prospettive di
verticalizzazione.
«Questo è un altro aspetto del processo produttivo
del coltello. È chiaro che non si può pensare a
un processo di verticalizzazione da parte del singolo artigiano che
molto spesso concepisce il suo prodotto come un’opera
d’arte. Coltellinai che fanno coltelli meravigliosi,
è difficile che possano decentrare una parte del loro
prodotto ad altri. Ma considerando che abbiamo una produzione di massa
che viene da fuori e invade il nostro mercato facendola passare per
produzione regionale, con il nome di Pattada…».
– Che è un marchio depositato di
produttori toscani di Scarperia.
«Appunto. Per questo, ritengo che sia opportuno utilizzare i
nostri saperi per produzioni semindustriali. Ritengo che sia possibile
adottare anche tecniche di decentramento: per esempio decentrare la
produzione del manico solo ad alcuni produttori, la produzione delle
lame ad altri e un’altra impresa, per esempio un consorzio,
potrebbe mettere insieme le une e gli altri e fare
l’assemblaggio. Non dimentichiamo che l’aspetto
più importante per la commercializzazione è il
marchio, quindi è possibile decentrare questo tipo di
produzione e accentrare la parte relativa al commercio e al marketing.
Questo, ne sono convinto, potrebbe portare a uno sviluppo del settore
del coltello, e non solo del coltello ma in genere delle lame da
taglio, che può dare un contributo al reddito e
all’occupazione».
– Cosa intende per lame da taglio?
«Oltre i coltelli prodotti con
tecniche di massa, cioè i coltelli da cucina, la coltelleria
da tavola elegante, ci sono per esempio i bisturi, che sono lame che
vengono prodotte prevalentemente a Magnago, nel Friuli, e hanno un
notevole successo. Lame da taglio sono anche i coltelli da
sommozzatore, coltelli particolari per il taglio e la pulitura dei
ricci, per particolari molluschi.Direi che spazio ce
n’è tanto».
– Forse è il caso di parlare del
modello di sviluppo che si delinea qui, il suo rapporto con la
cosiddetta economia morale. Vuole spiegare, da economista, queste
questioni?
«Intanto io assegno un valore
particolare al lavoro manuale, quello dell’artigiano che
opera innanzitutto per soddisfare un’esigenza personale che
risponde sempre a valori individuali riconosciuti: la bellezza del
prodotto, il valore della manualità, quindi
l’affermazione della propria personalità
attraverso questa attività che molto spesso viene
abbandonata e disprezzata. A questo si riconnette anche al valore che
l’artigiano attribuisce in termini di prezzo. Normalmente non
è un’attività speculativa, il
produttore che comincia a fare queste cose lo fa perché si
sente appagato per il riconoscimento che il mercato gli dà
senza però puntare a processi speculativi. Da questo punto
di vista ha molta simpatia per questo tipo di
attività».
– Questo è in linea con il pensiero di
molti economisti che ritengono poco pagante cercare di sviluppare una
regione o un paese prescindendo dalle sue caratteristiche tradizionali.
«In generale ritengo le politiche basate inizialmente sulle
risorse e sui saperi locali, che poi naturalmente vanno crescendo con
le integrazioni delle conoscenze, pur mantenendo il connotato del
localismo, hanno assunto un ruolo nel mondo della globalizzazione.
Ritengo che queste siano le politiche di sviluppo più solide
e stabili. Altrimenti ci troveremmo di fronte
all’importazione di un modello di sviluppo abbastanza
lontano. Se pensiamo alla politica degli anni Sessanta e Settanta, in
cui ci è stato imposto un modello di sviluppo abbastanza
lontano, completamente diverso da quello che era stato seguito fino ad
allora, possiamo dire che certamente ci sono stati vantaggi,
perché è cambiata la cultura, e certamente
l’industria è stata fattore di questo cambiamento.
Ma in ultima analisi, se guardo al risultato di quella politica, oggi a
distanza di trenta o quarant’anni, vedo solo cenere e
disastri. Se do uno sguardo alle nostre produzioni tipiche, per esempio
il formaggio e il vino, vedo che sono sempre in buone
condizioni».

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L’Unione
Sarda
5 maggio 2002
Rubrica: l’unione dell’Economia
COLTELLI DOC
PER IL MERCATO ESTERO
NELL’ISOLA UN GIRO D’AFFARI DI UN MILIONE 704 MILA
EURO
Nel libro di Antonio
Sassu la ricerca su una produzione
di nicchia tipicamente sarda legata al turismo
R.Ec.
Qualche tempo fa
il New York Times ha dedicato una pagina ai coltelli di Pattada,
l’unico posto al mondo dove la lavorazione è fatta
ancora con tecniche antichissime. I produttori di questo paesino del
Sassarese – l’aristocrazia dei coltellinai
– hanno vinto l’ennesimo premio internazionale e si
sono conquistati una nicchia di mercato redditizia, affascinante e con
importanti chance di sviluppo. È una storia che in Sardegna
può essere scritta per diversi protagonisti, il pane carasau
e il vino, l’agricoltura biologica e i gioielli. Un
“sapere locale” unico (perché frutto di
un territorio e di una cultura ben precisi) che diventa
“industria” che esporta, dà posti di
lavoro, stimola altri settori e contribuisce a dare
un’immagine dell’Isola che calamita turismo
d’élite. La qualità eccellente dei
manufatti, la dimensione agile delle imprese, le moderne tecniche di
marketing (molti hanno un sito Internet) hanno creato un piccolo
miracolo economico; la scarsa collaborazione tra aziende, la
concorrenza di altre regioni che hanno scelto la produzione in serie,
le difficoltà di accesso al credito, rischiano di
distruggerlo. E allora la strada da seguire è quella
indicata da Antonio Sassu, professore di Politica economica
all’Università di Cagliari e presidente del Banco
di Sardegna, nel suo ultimo libro (La dinamica economica di un sapere
locale, la coltelleria di Sardegna, AM&D Edizioni, 25 euro),
frutto di un approfondito studio sul campo che rientra in un progetto
di ricerca nazionale (“Know-how locali, progresso tecnico e
sviluppo economico”), finanziato dal Murst. Secondo Sassu
bisogna puntare su tre aspetti: affiancare al know-how secolare quello
meno nobile “di fabbrica”, creare un marchio Doc e
incrementare la promozione commerciale (un bell’esempio
è quello della mostra guspinese Arresojas) coinvolgere le
istituzioni, regionali ma soprattutto provinciali e comunali, per la
protezione e valorizzazione del comparto.
L’offerta. Nei primi mesi del Duemila –
è spiegato nel libro – in Sardegna ci sono 22
imprese ufficialmente registrate alle Camere di commercio, con 38
addetti. A queste bisogna aggiungere 166 produttori abusivi o sommersi,
con una forza lavoro complessiva di 200 unità. I comuni che
hanno la maggiore concentrazione delle imprese sono Pattada (41%) e
Arbus, Guspini e Santulussurgiu (con il 9% ciascuno). Per quanto
riguarda invece i produttori non ufficiali c’è una
diffusione più ampia in tutta l’area
sud-occidentale della regione, soprattutto nelle zone
dell’arburese, del guspinese e del Sulcis-Iglesiente, grazie
a una tradizione estrattiva che ha origini millenarie. «hi sa
costruire le macchine utilizzate in miniera sa fare anche i
coltelli», sottolinea Sassu, «così con
l’agonia dell’industria estrattiva, e tenuto conto
che quello del fabbro è un mestiere duro, si registra una
graduale conversione».Il giro d’affari complessivo
per i produttori ufficiali è di 807 mila euro
l’anno, con una produzione media per addetto pari a circa 21
mila euro circa.Per gli “abusivi” la stima si
aggira sui 620 mila euro, con una produzione di 7 milioni annui.
Complessivamente il “fatturato” dei coltellinai
sardi raggiunge un milione 704 mila euro, perché
«bisogna aggiungere almeno un 20% rispetto a quanto
dichiarato dagli interessati».
La domanda. Negli anni Cinquanta in Sardegna, è rimasto un
solo coltellinaio. La domanda da parte del mondo agropastorale va
progressivamente diminuendo, per le operazioni di macelleria, per
tagliare gli ortaggi, a tavola, si sostituiscono i coltelli moderni,
realizzati con tecniche industriali di massa e venduti a prezzi bassi.
Il “sapere artigianale” è insomma a un
passo dal funerale. Negli anni Sessanta, un fattore esterno rimette
tutto in discussione. Sorge e si sviluppa una richiesta legata al
turismo e al collezionismo. «A cominciare dagli anni
Cinquanta», sottolinea Sassu, «la Regione Sarda
investe molto in strutture alberghiere con risultati deludenti.
Tuttavia l’intensa pubblicità, effettuata insieme
con l’attività editoriale e giornalistica,
contribuisce alla diffusione di un’immagine
dell’Isola come terra che ha conservato incontaminati il mare
e l’ambiente, e ha mantenuto costanti usi, costumi e
tradizioni. Questa immagine viene venduta e accettata bene dal mercato.
Così, negli anni Settanta, ci sono tutte le premesse per un
consolidamento del turismo nella costa algherese e per la nascita e lo
sviluppo della Costa Smeralda. In questo contesto, oltre ai beni
naturali e ambientali, anche quelli tipici dell’artigianato
tradizionale vedono crescere la domanda
dall’esterno». Il coltello è uno di
questi. E oggi – sostiene uno ei più noti
coltellinai di Pattada – il 99% della produzione è
esportato.

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Il
Messaggero sardo
ottobre 2002
UNO STUDIO SCIENTIFICO SULLA PRODUZIONE DI COLTELLI
SARDI
REALIZZATO DALL’ECONOMISTA ANTONIO SASSU
PRESIDENTE DEL BANCO DI SARDEGNA.
LE POTENZIALI RISORSE DI UN’ANTICA ATTIVITÀ
di Eugenia Da
Bove
Depositari di un
sapere antico, i maestri coltellinai della Sardegna sono oggi una
ristretta cerchia di artigiani gelosa e consapevole del valore delle
proprie creazioni. In La dinamica economica di una sapere
locale. La coltelleria di Sardegna (AM&D Edizioni,
euro 25,00, pagine 168) l’economista Antonio Sassu, attuale
presidente del Banco di Sardegna, analizza un settore della produzione
sarda poco studiato ma dalle grandi potenzialità sia dal
punto di vista economico sia da quello dell’immagine
dell’isola nel mondo. Pur avendo un impianto prettamente
economico il saggio di Sassu dà conto anche della storia
della coltelleria sarda e italiana, nella sezione affidata alla giovane
studiosa Antonella Scalas, e dell’ambiente socio
istituzionale nel quale operano i coltellinai sardi nel capitolo
scritto da un altro allievo di Sassu, Simone Atzeni. Il libro si avvale
inoltre di una nutrita sezione iconografica che illustra efficacemente
la grande varietà di coltelli sardi e i diversi processi e
tecniche di produzione. Emerge così un quadro del passato,
del presente ma anche di quello che potrà essere il futuro
di un comparto (la cui produzione ha un valore stimato intorno ai 3
miliardi di lire) finora rimasto legato a forme, sebbene alte, di
artigianato. E che rischia di non riuscire più a tramandare
il proprio know-how mentre avrebbe tutte le caratteristiche per
diventare una vera e propria industria.
Secondo l’indagine condotta gli odierni produttori di
coltelli tradizionali sono nell'Isola 22 ai quali vanno aggiunti altri
166 non ufficiali, hobbisti che comunque hanno una loro committenza
spesso costituita da facoltosi collezionisti. Si tratta in entrambi i
casi di piccole imprese con pochi addetti, più spesso
individuali, sparse in alcuni centri dell’isola come Pattada,
Arbus, Guspini e Santulussurgiu. Centri nei quali l’arte
della coltelleria è stata tramandata di padre in figlio
secondo tecniche ormai scomparse nel resto del mondo o dove la
produzione del coltello è sorta solo dagli anni Settanta
proprio per rispondere alle esigenze di una clientela diversa da quella
tradizionale. Se infatti fino a pochi decenni orsono la produzione
andava a soddisfare una domanda locale legata all’uso
quotidiano che del coltello si faceva in una società agro
pastorale, oggi l’offerta è rivolta principalmente
al settore del turismo e al collezionismo. Ma la domanda di un oggetto
che ormai può essere prodotto con tecniche industriali senza
perdere troppo delle sue caratteristiche migliori è secondo
Sassu, potenzialmente molto più ampia. Lo dimostra anche il
fatto che alcuni produttori italiani, in particolar modo toscani, si
sono appropriati del marchio “Pattada” e fabbricano
industrialmente, per poi vendere a prezzi sensibilmente più
bassi, coltelli che gli acquirenti sono convinti vengano realizzati in
Sardegna. La conclusione e il suggerimento dell’autore
è perciò quello di non abbandonare la nicchia di
mercato medio alta ma di ampliare il target attraverso una produzione
industriale realizzata entro i confini dell’isola. Una
strategia che porterebbe fra l’altro alla creazione di nuovi
e numerosi posti di lavoro. A tale intrapresa, sottolinea, Sassu devono
però collaborare le istituzioni politiche con la creazione
di un marchio “Doc” per il coltello sardo e quelle
creditizie con un supporto economico alle nuove imprese che decidessero
di affacciarsi sul mercato. Un mercato che sarebbe ampio e
internazionale e che sarebbe nuovo smalto all’immagine e
all’economia dell’isola.
In occasione della presentazione del volume La dinamica economica di un
sapere locale. La coltelleria di Sardegna (AM&D Edizioni, euro
25,00, pagine 168) abbiamo rivolto alcune domande all’autore,
Antonio Sassu, professore di politica economica presso
l’Università di Cagliari e attuale presidente del
Banco di Sardegna.
Come nasce l’idea di dedicare uno
studio a un argomento così specifico come quello della
coltelleria?
«Da almeno cinque anni mi occupo
di problemi relativi ai saperi locali. Infatti sono coordinatore di un
progetto di ricerca finanziato dal ministero
dell’Università a cui partecipano diverse
università del Meridione. Si tratta di un progetto che ha
come obiettivo lo studio e la valorizzazione dei saperi locali. Per
quanto riguarda la Sardegna ci siamo occupati del pane, del miele, dei
tessuti, dell’olio, del cuoio, cioè di tutti quei
settori in cui abbiamo un’attività produttiva
fortemente identitaria. Nel corso di questi studi ci siamo resi conto
che il settore della produzione dei coltelli aveva la consistenza per
essere studiata. In Sardegna esiste un grande numero di imprese che
producono coltelli ma, mentre la produzione italiana del coltello si
è saputa trasformare inserendo molti elementi tecnologici
nuovi, gran parte dei produttori sardi ha mantenuto una produzione
tradizionale».
L’indicazione fondamentale che
emerge dal suo studio sulla coltelleria sarda è
sostanzialmente quella che si tratti di una produzione suscettibile di
espandersi verso un target medio basso. Lei lo crede davvero possibile
si come economista che come uomo di banca?
«Molti dei coltelli che vengono venduti in Sardegna sono
realizzati fuori dall’isola e hanno un prezzo che si aggira
sui 25-60 euro, mentre il coltello prodotto in Sardegna ha prezzi
sensibilmente più alti anche perché è
realizzato in maniera diversa. Questa produzione che ha prezzi medio
bassi e che si rivolge a una fascia più ampia di acquirenti
potremmo farla noi o altrimenti questi coltelli verranno comunque
offerti e venduti in Sardegna. Si tratta insomma di un prodotto che ha
un mercato che oggi viene occupato da produttori non sardi: ecco, credo
che sia possibile che i sardi si sostituiscano a questi. E dato che la
Sardegna ha un’ottima reputazione in questo campo credo che
sia possibile vendere anche fuori dell’isola facendo
concorrenza direttamente agli altri con questo tipo di
produzione».
Lei sostiene anche la necessità
di un supporto a questo settore da parte di Regione e istituti di
credito.
«Se vogliamo creare un distretto
industriale di questo tipo si tratta di supporti necessari per fare
emergere quel consistente numero di “hobbisti”
– ne abbiamo contati 166 – che porterebbe il
settore a circa 200 aziende: neanche i produttori di pecorino sardo
sono tanti».
Una domanda più generale
sull’economia sarda e sui saperi locali: perché la
Sardegna che ha tante produzioni di qualità, che lei stesso
ha già citato, e anche un patrimonio ambientale e
archeologico unico al mondo, non riesce ad avere un decollo e uno
sviluppo economico reale basato su queste sue peculiarità?
«Indicherei due elementi: uno
è la mancanza di conoscenze adeguate, cioè la
mancanza di una evoluzione delle conoscenze, ovvero
un’arretratezza delle tecnologie. Oggi ad esempio i
produttori di pane carasau, che fino a vent’anni veniva fatto
a mano con il forno a fuoco, producono un pane altrettanto buono con un
processo in parte meccanizzato. Oltre a non perdere in
qualità questo pane può quindi essere prodotto in
grandi quantità e a costi più bassi
cioè, come dicono gli economisti, con grandi economie in
scala. In questo caso le macchine sostituiscono la manodopera che
è molto costosa e ha una produttività
più bassa. Come dimostra questo esempio, utilizzando una
tecnica produttiva più avanzata si possono fare notevoli
progressi. Ecco perché lo sviluppo locale non è
andato particolarmente avanti. Ma vi è anche un problema di
fiducia e di sicurezza in certe zone, perlopiù interne,
dell’isola dove la criminalità è
più diffusa e dove la diffidenza e la paura hanno finora
impedito un vero e proprio sviluppo economico. D’altra parte
ci sono dei segnali che inducono all’ottimismo: oggi si
avverte una maggiore sensibilità da parte delle istituzioni
pubbliche a questi problemi e, inoltre, i giovani che vanno a studiare
e a lavorare fuori dell’isola quando ritornano portano nuove
conoscenze e nuova voglia di fare. Insomma esistono fondate speranze
che le cose possano cambiare».

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Recensione al volume:
Luisa Coda, Ceti
intellettuali e problemi economici nell'Italia risorgimentale
La Nuova
Sardegna
18 novembre 2002
Rubrica: Cultura
Il Risorgimento visto dalla studiosa Luisa Coda
INTELLETTUALI ED ECONOMIA PRIMA DELL’UNIFICAZIONE
di Eugenia Tognotti
In una fase di
rapidissime trasformazioni nel nostro Paese, si è fatta
più acuta l’esigenza di spingere lo sguardo verso
il passato per ricercarne i fatti contingenti e le radici
più profonde. Particolarmente istruttivo si rivela
così lo sforzo di indagine sui decenni che precedono
l’unificazione e che coincidono con la stagione storica del
Risorgimento. Si tratta di un periodo che segna l’avvio di
una fase profondamente diversa per l’Italia tutta. Solo
allora il Paese fu costretto a misurarsi con i problemi della
modernità e con i suoi elementi costitutivi:
l’idea di nazione, l’unità politica, lo
sviluppo economico. A quest’ultimo tema – soffocato
per troppo tempo dall’interesse storiografico per i
protagonisti e gli eventi del movimento risorgimentale – sono
dedicati alcuni studi recenti come questo di Luisa Cosa, storica
dell’economia e professore
all’Università di Sassari che ha ricostruito il
dibattito sui problemi dell’economia attingendo a una
pluralità di fonti poco note. L’autrice segnala,
tra l’altro, a ragione, il ruolo svolto dai
“Congressi degli scienziati”, il primo dei quali si
svolse a Pisa nel 1839.Da allora, per alcuni anni, matematici,
ingegneri, agronomi, tecnici, accademici o iscritti a
società scientifiche o ad importanti accademie come quella
dei Georgofili – uscendo dai ristretti confini dei diversi
Stati regionali – si incontrarono a cadenza annuale per
scambi e confronti culturali sempre più finalizzati alla
trattazione di problemi agricoli, “industriali, igienici. Le
sezioni dell’attività congressuale agronomia e
tecnologia, zoologia e anatomia comparativa, fisica e matematica,
geologia e medicina – diventavano così luogo di
discussione, con strumenti e metodi rinnovati, di problematiche
economiche, giuridiche e sociali.
I “dotti” riuniti a congresso – si
riconoscevano così come portatori di una ragione scientifica
che li legittimava come un'élite capace di produrre
autonomamente un progetto di trasformazione economica e sociale per
un’Italia che non era un’astratta idea culturale,
ma un’entità geografica precisa con problemi
specifici di sviluppo. Quanto influirono nella formazione di uno
spirito unitario della borghesia nazionale quelle assise che radunava
il fior fiore dell’intellettualità
tecnico-scientifica del tempo? La questione è ancora aperta.
Certo è che se dal punto di vista politico, come sostiene
qualcuno, il filo rosso del Risorgimento fu il principio di
libertà, dal punto di vista economico fu invece la
«volontà di riscattarsi dalla dipendenza
straniera, di porre le basi affinché i prodotti italiani,
agricoli e manifatturieri, fossero non solo in grado di misurarsi con
successo con quelli esteri nel mercato della Penisola, ma anche di
aprirsi un varco in quello internazionale».

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Recensione al volume:
AA.VV., Storia del movimento
sindacale nella Sardegna meridionale
La Nuova
Sardegna
30 dicembre 2002
Rubrica: Cultura
IN PRINCIPIO
FURONO LE LEGHE
«STORIA DEL
MOVIMENTO SINDACALE NELLA SARDEGNA MERIDIONALE»,
CON PREFAZIONE DI SERGIO COFFERATI
In libreria il saggio di quattro giovani ricercatori
di Giuseppe
Pulina
In principio
furono le leghe di resistenza e le società di mutuo
soccorso, più avanti, negli anni a noi più
vicini, da queste prime cellule di associazionismo sindacale emerse e
prese corpo l’embrione delle odierne organizzazioni di tutela
dei lavoratori. Nel Medio Campidano, come nel resto della Sardegna e
del continente, la linea di formazione e diffusione del sindacalismo
seguì un percorso per così dire tortuosamente
uniforme, segnato da crisi, esaltanti successi e rovinose cadute.
Quando sarà definitivamente scritta, e del risultato
raggiunto dovranno però dirsi soddisfatti tutti gli
specialisti della materia, la storia del sindacato in Italia
dovrà tenere necessariamente conto delle differenti tappe e
dimensioni territoriali attraverso le quali è maturato nel
tempo il suo processo di crescita. Oggi, un contributo alla storia del
sindacato viene da quattro giovani ricercatori del Centro Studi SEA,
Raffaele Callia, Gianpiero Carta, Martino Contu, Maria Grazia Cugusi,
autori di un voluminoso saggio sulla “Storia del movimento
sindacale nella Sardegna meridionale”, che si avvale anche di
una prefazione di Sergio Cofferati. Un’occasione per
l’ex segretario della Cgil per sottolineare, oltre ai meriti
del libro, l’importanza del ruolo che i sindacati hanno avuto
nella storia nazionale, dagli albori promettenti delle loro prime
comparse ai tempi più recenti, che ne hanno visto e ne
vedono tuttora in discussione le conquiste realizzate e la strategia
unitaria.
La ricerca dei quattro studiosi non ruota attorno ad un preciso e
comune presupposto storiografico, una tesi di partenza da suffragare
con dati e documenti. È, molto più semplicemente
(e non è comunque poco), il racconto di un’intensa
pagina del sindacalismo sardo, svoltasi tra fine Ottocento e fine
millennio, soprattutto nel Medio Campidano, laboratorio politico ideale
per definire strategie, compiere analisi e saggiare la portata e la
tenuta delle rivendicazioni del movimento dei lavoratori, il non sempre
facile trasformarsi di queste in istanze politiche e
l’entrata in scena di nuovi soggetti (la Chiesa locale, ad
esempio) in grado di discutere e orientare la società
civile. Nelle vicende del movimento sindacale che ebbero come scenario
il bacino minerario dell’Iglesiente, Villacidro e il
Guspinese, trovano conferma tendenze contemporaneamente in corso in
altre regioni del Paese: fatto che la dice tutta sulla
solidità dell’antagonista delle organizzazioni
sindacali tanto nell’isola quanto nel resto
d’Italia.
Un ostacolo non facile da superare fu, per il movimento sindacale della
Sardegna meridionale, la stessa base del reclutamento di operai e
minatori, con le maestranze qualificate che, verso fine Ottocento,
provenivano, di norma, dalla Penisola; per non parlare
dell’ibrida natura professionale del salariato sardo, spesso
operaio e contadino a un tempo, visto che una parte non trascurabile
del reddito familiare continuava ad essere ricavata dal lavoro nei
campi. Sulle fortune – non poco travagliate e discutibili
– del primo sindacalismo sardo inciderà anche la
miopia di una visione strategica che privilegiò il minatore
e l’operaio delle fabbriche, trascurando il coinvolgimento,
tanto possibile quanto essenziale, di pastori e contadini. Non fu,
tuttavia, un problema di leader, di scarso dinamismo e inefficienza
organizzativa, come dimostra la parabola della militanza di Giuseppe
Cavallera a Carloforte, dove non prese a cuore solo le sorti dei
battellieri che facevano la spola tra la terra ferma e
l’isola, ma anche quelle – ancor più
difficili da sostenere – di tutti i minatori del Sud
Sardegna. Proprio la vicenda di Cavallera mette in luce la spaccatura
del fronte antigovernativo nell’Italia dei primi del
Novecento, alimentata dalla contrapposizione tra repubblicani e
socialisti, e dall’erosivo conflitto, interno al PSI, tra
massimalisti e riformisti.
Il libro sostiene, inoltre, la tesi di un sindacalismo locale capace di
lasciare un’impronta anche sugli sviluppi del movimento
nazionale. Paradigmi risulterebbero i fatti di Buggerru del settembre
del 1904, da cui scaturì il primo sciopero nazionale della
storia sindacale italiana. Buggerru fu allora l’evento che,
meglio e più di altri, diede la misura del solco che si era
ormai tracciato tra le due componenti del socialismo, mettendo
definitivamente fuori gioco i turatiani riformisti dalla spirale
giolittiana che li avrebbe voluti integrare nella macchina di governo.
Prima e dopo il fascismo, attraverso l’assorbimento del
dinamismo sindacale nelle maglie del corporativismo, movimenti, sigle e
associazioni dei lavoratori sperimentano
l’infruttuosità di strategie di lotta che
ricalcavano modelli d’importazione che non si addicevano
affatto alla realtà sarda. Un errore cui il sindacato sardo
sembrerebbe aver rimediato negli anni Settanta con la creazione della
Camera del lavoro di San Gavino e la trasformazione delle principali
questioni economiche e occupazionali in vertenze territoriali.

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Recensione al volume:
Franco Masala, Architetture
di Carta. Progetti per Cagliari (1800-1945)
La Nuova
Sardegna
10 febbraio 2003
Rubrica: Cultura
CAGLIARI, CITTÀ DEGLI OPPOSTI
UNO SVILUPPO NEL SEGNO DEL BINOMIO ACQUA-TERRA
Un saggio di Franco Masala analizza la crescita urbanistica
del capoluogo sardo dal 1800 al 1945
di Sandro Roggio
Nello
sfondo di ogni città c’è una sequenza
di idee inattuate, di progetti interrotti, di aspirazioni individuali e
collettive ad assetti diversi, difficile dire se migliori o peggiori di
quelli che si sono realizzati.
Guardare le figure urbane attraverso i disegni che le hanno prodotte e
i disegni che sono rimasti esercizi – dimostrazioni un
po’ astratte di come sarebbero andate le cose –,
aiuta a capire il rapporto complicato che si stabilisce tra le
comunità, le classi dirigenti, e i luoghi. Ogni storia
urbana, ogni parte di città ha un retroterra di vicende dove
le differenti visioni, spesso in conflitto, costituiscono il nesso
conduttore. I grandi complessi monumentali del passato, come ogni
piazza o strada di epoche recenti, nascondono un retroterra frammentato
di velleità, di soggetti che si sono fatti sentire e un
caleidoscopio di microfigure sociali che si intravedono appena nel
processo di costruzione della città.
Tutti questi nessi, a partire dal rapporto tra committenti e
progettisti, condizionato dalle disponibilità di risorse,
servono per capre la storia di ogni insediamento umano.
Il libro di Franco Masala, «Architetture di carta. Progetti
per Cagliari 1800-1945», si colloca in modo esemplare in
questo filone di ricerca. Un libro di architettura come –
convincente sul piano del metodo, eccellente per la documentata analisi
– è sempre in ritardo rispetto alla cresciuta
attenzione del pubblico, a lungo sottovalutata, per la storia delle
città che abita.
È un libro raro nel panorama editoriale – quello
sardo in particolare – perché i libri di
architettura solo da poco trovano minori difficoltà ad
essere pubblicati, con adeguatezza di apparati iconografici (rispetto a
quelli di pittura più sostenuti e normalmente generosi di
pagine e di foto). E in questo occorre dare atto alla determinazione di
AM&D di Anna Maria Delogu che non è nuova a queste
imprese.
Masala è uno studioso attento alla storia
dell’architettura in Sardegna. I suoi lavori (su Cagliari ha
tra l’altro pubblicato nel ’96 un saggio nel volume
di Aldo Accardo per Laterza) dimostrano un’insolita
capacità di spiegare attraverso le carte
d’archivio la formazione del processo decisionale sulla
città; un’attività che si
può condurre con successo solo grazie a una paziente analisi
dei documenti e al loro confronto sistematico.
Cagliari è una delle città più belle
del Mediterraneo: forse più per la sua straordinaria
giacitura che per il modo con cui è stato interpretato il
suo paesaggio naturale, per come la sua condizione ambientale ha
dettato regole insediative più di recente malintese (ma
hanno resistito soluzioni spaziali e figurative di grande suggestione).
La sua intensa vicenda urbanistica non lascia indifferenti. Cagliari
è una città dove si avverte, più che
altrove, una intensa relazione tra “opposti” che la
segnano in profondità. Innanzitutto acqua/terra (o sabbia
per toccare un punto dolente) come primo binomio conduttore,
natura/artificio che sul precedente si incardina.
Quindi opulenza/povertà per gli scarti tra palazzi grandiosi
e case povere e minute; sopra/sotto per le impressioni mutevoli che si
avvertono passando dalle quote inferiori a quelle del castello,
vicino/lontano per l’alternarsi degli sguardi introversi
nelle strette strade che obbligano a vedere cose piccole e preziose e
d’improvviso l’orizzonte.
Ma anche vecchio/nuovo per l’accumulo di architetture e per
il contrasto tra l’equilibrio delle soluzioni adottate nel
passato e le sciatte ingerenze contemporanee.
È evidente come queste antinomie, sottolineate dalle
differenti modalità di organizzazione spaziale dei quartieri
storici (Castello, Marina, Villanova, Stampace), siano coinvolgenti e
quanto abbiano contato nelle scelte di architetti e ingegneri, come le
forme e gli stili delle architetture (piemontesi, italiane, europee)
siano state filtrate attraverso la complessità dei paesi
saggi e delle condizioni climatiche.
I più importanti eventi che hanno deciso la forma di
Cagliari sono esposti da Masala con rara efficacia nonostante il
corredo iconografico sobrio, monocromatico (ma i grandi libri di storia
dell’architettura, la più costosa delle arti, sono
in genere illustrati in modo essenziale).
Il racconto, con riferimento a tracce tematiche (tra cui i progetti di
primo Ottocento, la stagione dei concorsi, le architetture
dell’effimero e quelle per le case popolari e operaie) coglie
l’evoluzione della città attraverso i contributi
dei tanti progettisti passati nella capitale sarda.
Dagli architetti invitati dal governo sabaudo per realizzare la strada
reale (Viana, Marchesi, Cominotti) a quelli che provengono da questa
straordinari esperienza come allievi delle scuole del Genio (Gaetano
Cima), mentre si distingue ancora nel Capo di Sotto l’opera
dei due più anziani ingegneri militari sassaresi Vittorio e
Carlino Pilo Boyl, apprezzati a corte, in particolare da Carlo Felice.
Spicca nel volume l’attività di progettista e
docente di Gaetano Cima, il primo cagliaritano che stabilisce un
rapporto stabile con la città; la personalità
più rilevante, il cui contributo appare decisivo per la
città a metà Ottocento e al quale
spetterà un indubbio ruolo di predominio professionale e
culturale, “una posizione, osserva Masala, fondamentale per
il controllo, la verifica e il collaudo di quanto si andava costruendo
o soltanto proponendo in città”.
Un’attività che si proietta oltre Cagliari (per i
contatti che stabilisce fuori dalla Sardegna) e oltre il suo tempo con
eredi autorevoli e singolari, come Filippo Vivanet, un intellettuale
che sembra anticipare il dibattito della cultura architettonica in
Italia sulla tutela dei monumenti (a cui si connette l’opera
di Dionigi Scano che Masala colloca in continuità con quella
di Cima e Vivanet).
Risultano dal lavoro le fasi cruciali della vicenda urbanistica
cagliaritana attraverso una grande quantità di contributi.
Si spiega il dibattito nella fase della trasformazione da piazzaforte a
città borghese, attraverso le difficoltà a
reinterpretare le strutture pensate per la difesa; e quando si avverte
la necessità di progettare in modo moderno (così
da assicurare alle amministrazioni i risultati per i quali si impiegano
le risorse pubbliche). Si spiega come anche a Cagliari la
necessità di un controllo rigoroso delle trasformazioni
urbanistiche, mediante la adozione di nuovi regolamenti urbanistici,
con la nomina di commissioni di controllo
dell’attività edilizia abbia una causa
fondamentale nei rischi di ordine igienico-sanitario.
Nel passaggio tra Otto e Novecento, come il libro evidenzia, la
produzione di idee per la città si infittisce
proporzionalmente alle attese di una comunità proiettata
verso un’altra epoca. Si apre la stagione dei grandi
interventi privati e pubblici che culminano nelle spettacolari
soluzioni ecletiche e moderniste nella via Roma, uno dei temi urbani
più appassionanti per imprenditori e progettisti, o nei
raccordi dei dislivelli che danno vita a splendide scene come quella
del Bastione Saint Remy.
Si pongono anche per Cagliari le questioni connesse al vecchio centro
(anche qui pensato come il buco nero causa dei tanti mali); si
segnalano le molte demolizioni che sono il segno dei tempi e il frutto,
luogo per luogo della maggiore o minore sensibilità. In
questo caso, si osserva, “incuria, ignoranza, speculazione,
catastrofi annunciate sono le cause primarie di queste
demolizioni” che costituiscono un lungo elenco di perdite
anche importantissime.
In seguito sarà l’edilizia scolastica e
universitaria e la grande questione delle abilitazioni che si apre nel
primo dopoguerra a caratterizzare il dibattito che prosegue nel
Ventennio.
Masala aiuta a riguardare Cagliari con un punto di vista mobile e a
rifuggire da semplificazioni. Così la città di
oggi, attraverso i prodotti di una serie di autori individuali e
collettivi che si sono accumulati nel corso del tempo –
sommandosi, contrapponendosi vicendevolmente –, assume
un’altra connotazione. Sembra di poterne decifrare meglio il
corpo nel quale diverse generazioni di committenti e progettisti hanno
lasciato le proprie tracce aggiungendo e togliendo comunque
modificandone parti grandi o piccole. Ma non si può proporre
un unico punto di vista e sarebbe impossibile produrre assemblaggi
dimostrativi: così è meglio che ciascuno provi a
percorrere un proprio itinerario che, secondo l’autore,
potrà consentire a chiunque «di smontare e
rimontare la città a suo piacimento come in certi capricci
settecenteschi».

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Recensione al volume:
Marinella Lörinczi, Il
libro del Fenicottero. Immagini della "Gente Rossa" nelle lingue e
nelle arti
L’Unione
Sarda
21 giugno 2003
Scaffale sardo: Rubrica di Gianni Filippini
Il primo
incontro con questo volume particolare sollecita una
perplessità: può una docente universitaria di
linguistica romanza scrivere Il libro del fenicottero, cioè
ricreare con testo e immagini tutte le suggestioni di questo
incantevole uccello? Poi, anche se l’autrice, Marinella
Lörinczi, ammette in premessa di aver affrontato un percorso
conoscitivo inconsueto, la lettura sgombra il campo da ogni dubbio e
addirittura condanna alla banalità l’iniziale
domanda.
Malgrado il sottotitolo reciti: “Immagini della Gente Rossa
nelle lingue e nelle arti”, il libro del fenicottero
(AM&D edizioni, collana “Agorà”)
non propone certo il viaggio di un ambientalista. E infatti un primo ma
appassionante bilancio scientifico di una ricerca sulla storia sociale
del fenicottero, cioè – per dirla con
l’autrice – «un quadro
d’insieme di come l’esistenza del fenicottero sia
stata recepita dall’uomo sul piano della lingua, delle
credenze e degli usi, nella letteratura, nelle arti figurative e nella
scienza». Ed anche, come caratteristica specifica della
pubblicazione, in tutta una serie di sottofiloni via via scoperti nel
corso dell’indagine scientifica.
Lasciate alle spalle le infondate perplessità sul rapporto
fenicottero-linguistica romanza, si può saltare a
piè pari l’eventuale ostacolo della definizione
che apre l’introduzione: «Se questo lavoro
è tendenzialmente e basilarmente una monografia sui nomi del
fenicottero, v’è da aggiungere che esso appartiene
al ben noto genere saggistico delle monografie
onomasiologiche». Perché, dopo aver reso omaggio
agli ovvii doveri accademici di una docente
dell’università, del volume si può dire
che è interessante e che va letto. Ricco di informazioni e
curiosità, di documentazione e di stimoli, di riferimenti
scientifici e letterari, geografici e storici, non può
essere ridotto alle quattro battute di una sintesi che speri di
segnalarne livello e spessore. Si può al massimo tentare la
strada di qualche accenno.
Per esempio, i nomi nella lingua sarda. Che sono due – ci
dice Marinella Lörinczi – e sono attestati a partire
dal settecento: mangòni, tipico del
Cagliaritano, e gent’arrubia, tipico
dell’Oristanese. Con una curiosità: Max Leopold
Wagner fornisce anche le forme logudoresi, «ma senza porsi il
problema – avverte l’autrice – che nelle
zone di parlata non campidanese il fenicottero è al massimo
accidentale o disperso».

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Recensione al volume:
Giuliano Procacci, La
memoria controversa. Revisionismi, nazionalismi
e fondamentalismi nei manuali di storia
Il Riformista
29 maggio 2003
DATEMI UN LIBRO
DI TESTO
E VI FARÒ UNA NAZIONE
…Nel paese leader della
modernità, nella società americana, i movimenti
degli anni ’60 hanno preteso dagli studi storici il
riconoscimento di un posto per le donne, i neri, gli
omosessuali…
Revisioni. «La memoria controversa»
indaga sulle storiografie pilotate
Il primo impatto
degli esseri umani scolarizzati con la storia avviene, nella stragrande
maggioranza dei casi, attraverso i manuali scolastici.Importante
è quindi la loro responsabilità nella definizione
e ridefinizione del sentimento e dell’identità
nazionale. Sui manuali scolastici si appuntano, perciò,
attenzioni e forme di controllo, variabili a seconda della struttura
politica dei singoli stati, o con il monopolio delle
autorità statali, o con gli organi collegiali della scuola.
Giuliano Procacci con La memoria controversa, edito da AM&D,
suggerisce di paragonare l’indagine sulla manualistica
storica alla deduzione di quel pellegrino che veda la sola cupola di
San Pietro poggiando l’occhio sul buco della serratura del
cancello del giardino prospiciente la villa dei Cavalieri di Malta
sull’Aventino. Da questo particolare egli capirà
di essere a Roma… Nel paese leader della
modernità, nella società americana, i movimenti
degli anni ’60 hanno preteso dagli studi storici il
riconoscimento di un posto per le donne, i neri, gli omosessuali; una
storia multiculturalista rispetto alla quale le vecchie formule del
melting pot e l’ex pluribus unum risultavano inadeguate. Con
eccessi di senso di colpa a volte esilaranti come un Beethoven
afroeuropeo o un Napoleone in atto di sparare al naso camuso della
sfinge per nasconderne l’identità africana. E
così agli inizi degli anni ’90 la manualistica
storica americana appariva roba da Disuniting America. Continua,
intanto, il dibattito tra i sostenitori di un insegnamento mnemonico,
date, fatti ecc. di stampo tradizionale, e quanti, gli innovatori,
insistono sulla necessità di insegnare a pensare
storicamente e criticamente. In Italia? Echi del dibattito.

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Corriere
della sera
19 giugno 2003
Rubrica: Sette - numero 24/25
L’INSOSTENIBLIE
LEGGEREZZA DEI MANUALI
E.M.
Libri che
passano velocemente dagli altari alla polvere? Nulla in confronto a
quel che succede ai manuali di storia di molti Paesi. Giuliano Procacci
lo illustra in La memoria controversa – Revisionismi
nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, uscito da
AM&D. Ogni certezza apparentemente acquisita può
essere stravolta. I palestinesi si considerano
«unici» anche rispetto ai confratelli arabi. In
alcuni testi giapponesi, il secondo conflitto rientra in una
«grande guerra per l’Asia orientale»
vinta dai nipponici perché le potenze coloniali hanno
abbandonato i loro possessi. In India, l’ultimo
fondamentalismo hindu se la prende anche con Gandhi. Per gran parte
dell’umanità il manuale resta la sola occasione di
contatto con la storia. Ovvio che sia anche il più
sottoposto a condizionamenti politici.
Obiettivo perenne è la costruzione
dell’identità nazionale. Negli Stati
dell’ex blocco orientale, derivano acrobazie estreme. Dai
manuali sovietici, l’Ucraina indipendente si emancipa
drasticamente: i soldati ucraini che combattono con l’armata
rossa o coi collaborazionisti di Vlassov sono patrioti allo stesso
titolo. Testi serbi e croati si rinfacciano la
responsabilità dei massacri durante la seconda guerra
mondiale, con spreco di aggettivi come «incivili» e
«barbari»: «La logica», nota
Procacci «essendo quella dell’identificazione del
vicino con il nemico». I problemi, comunque, non toccano solo
Paesi appena usciti da traumi dittatoriali o di recente riconoscimento
statuale. Il sistema educativo inglese si caratterizzava, fino al 1988,
per l’assenza di ogni programmazione nazionale. Allora
è stato introdotto il National curriculum. Resistenze a non
finire: «L’idea che l’insegnamento della
storia britannica spetti al governo del giorno è e dovrebbe
essere particolarmente ripugnante», ha scritto il Times
Literary Supplement. E gli americani si sono incagliati quando hanno
tentato di introdurre gli «historical standards».
Passare dal «melting pot» alla «salad
bowl» conservando il principio
dell’«epluribus unum» ha prodotto
infinite riunioni senza raggiungere una formula convincente per tutti
gli Stati dell’Unione.

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L'Unità
23 giugno 2003
Rubrica: Orizzonti
“idee-libri-dibattito”
LA STORIA
SCRITTA. E RISCRITTA
di Adriano Guerra
Prima sorpresa: Procacci «topo di
internet». Il suo ultimo libro è stato
sostanzialmente costruito su fonti reperite tramite Internet, nel senso
che senza l’accesso ai siti Web, con la vecchia tecnica del
«topo di biblioteca», e di un «topo di
biblioteca» poliglotta, un’opera come questa non
avrebbe potuto neppure essere pensata. Internet come la
«biblioteca di Alessandria» dunque. Non
c’è male per uno storico nato ad Assisi
settantasette anni oro sono.
Seconda, ma questa volta relativa, sorpresa: il libro non è
soltanto una ricerca sui manuali di storia di (quasi) tutto il mondo,
ma un intervento sui punti cruciali del dibattito politico-culturale in
corso: il revisionismo, il nazionalismo, il fondamentalismo,
l’uso politico della storia, il ruolo della memoria. Dopo
aver per qualche tempo passeggiato un poco ai margini – dopo
la «Storia del XX secolo» il Nostro si è
occupato, come si sa, della madonna di Loreto e della disfida di
Barletta stupendo e anche allarmando un poco quanti si attendevano da
lui una risposta «italiana» all’ondata
dei Furet, dei Nolte, giù giù sino ai curatori
del «libro nero», Procacci dice la sua insomma su
un gruppo di questioni tra le più aperte e controverse di
oggi.
E lo fa guardando le cose da un punto apparentemente periferico e
defilato, da un «buco della serratura», come
può essere il cancello del giardino dei cavalieri di Malta
sull’Aventino dal quale, con un’occhiata distratta
si può vedere – ci dice – soltanto la
cupola di San Pietro. La cupola e nient’altro. Ma quante cose
si possono indovinare guardando a quel tetto con occhi curiosi e
sapienti… (Vien da pensare che forse può essere
il caso di tornare a rileggere anche la pagine sulla «madonna
che vola» e su quel che avvenne quel giorno a Barletta. Forse
anche lì si parla d’altro).
Ma veniamo al libro di oggi. I manuali di storia dunque, e con essi i
criteri sui quali costruirli. Criteri che possono essere, e di volta in
volta sono, il risultato della scelta di un potere assoluto, di un
vincitore (lo Stato, una forza politica o sociale, un’etnia,
una religione) di una cultura egemone, di un dibattito democratico, di
un compromesso fra le parti. L’importanza dei manuali di
storia sta nel fatto che essi «sono il tramite attraverso il
quale tutti gli esseri umani scolarizzati hanno il loro
primo» – e spesso fondamentale –
«impatto con la storia», e dunque contribuiscono
«in maniera non irrilevante alla formazione del
cittadino» e della identità nazionale.
Ecco: l’identità nazionale oggi. La questione
messa a fuoco guardando dallo spioncino dei manuali sta qui.La prima
cosa che ci dice Procacci è che davvero
«revisionismo» non è una parolaccia e
che dunque è sacrosanta la battaglia di quanti invitano a
non confonderlo col «negazionismo» o con un altro
modo per dire cultura di destra. Revisionismo è parola
neutra ed è del tutto legittimo oltreché naturale
dunque che in tutti i paesi ci siano di continuo forze politiche,
sociali e culturali che tendono a respingere certe letture del passato
o aspetti di esse, e a proporne nuove.
Se con questa ottica si guarda al mondo di oggi il fenomeno
più macroscopico che viene alla luce è quello
dello straordinario affollarsi – nello stesso momento in cui
masse enormi di uomini si spostano dalle aree povere del Sud verso le
aree ricche, mettendo in crisi il vecchio «Stato
nazione» – di spinte verso la fondazione o la
rifondazione di nuovi Stati, e dunque di nuove identità
nazionali. Il fenomeno è grandioso e, proprio
perché i manuali di storia sono veicoli fondamentali per
costruire un’identità nazionale, forse mai come in
questo periodo gli autori dei manuali, e i loro ispiratori, critici o
controllori, hanno avuto tanto lavoro. Si pensi ai paesi africani la
cui storia, scritta dai colonizzatori bianchi non era altro spesso che
una parte della storia dell’impero (tedesco e poi inglese,
francese, belga, italiano, portoghese) e che sono ora impegnati a
cercare nel lontano passato il filo rosso che porta agli attuali Stati
indipendenti.
E ancora si pensi alla Ucraina, alla Germania, alla Moldavia, alla
Bielorussia, all’America e agli alti Stati nati con la
dissoluzione, con l’Urss, dell’impero russo. Del
tutto naturale è che oggi nelle scuole di questi paesi si
guardi in modo diverso – rispetto ai manuali sovietici nei
quali si inneggiava al fraterno legame che univa tutti i cento popoli
dell’Urss «attorno al loro fratello maggiore, il
popolo russo» – alle battaglie che hanno permesso
agli zar di annettere alla Russia immensi territori.
Questa ricerca delle radici è spesso deformata –
documenta Procacci – da sfrenati nazionalismi e da assurde
invenzioni. Ecco i manuali serbi e croati che, ignorando ciascuno le
vicende dell’altro, esaltano il ruolo della sconfitta contro
gli invasori ottomani, di Kosovopolje (1389), i primi, e di
Krbavskopolje (1493), i secondi, o presentano l’attenzione di
Sarajevo, Gavrilo Princip, ora come un eroe, i primi, e ora come un
terrorista, i secondi. Tra le aberrazioni che è possibile
trovare nei vari testi alcune lasciano davvero – come si dice
– senza parole: che dire dell’autore belga di un
testo diffuso nel Congo nel quale si parla degli indigeni come di
appartenenti ad una razza inferiore perché colpiti dalla
biblica maledizione di Cam? O degli storici afrocentristi americani
secondo i quali Beethoven sarebbe stato un afroeuropeo e Napoleone
avrebbe ordinato di far fuoco sulla Sfringe per eliminare i tratti
africani?
Quando poi il nazionalismo più sfrenato si unisce al
fondamentalismo religioso i risultati sono disastrosi come si vede
nelle pagine dedicate nel libro ai testi hindu e musulmani.
Contro nazionalismi Procacci è spietato. I diritti delle
«piccole patrie», quelle, per usare le parole di
Hobsbawm, delle «taglie minime», non hanno
certamente in lui un difensore. E qui potremmo trovarci di fronte
semplicemente ad una vecchia e radicata convinzione che assegna
– a parer mio troppo facilmente – alla
«destra» politico-culturale il compito di
salvaguardare l’identità dei piccoli popoli. Il
libro di Procacci entra però nel vivo della discussione
sollecitando domande e chiarimenti, quando la polemica viene rivolta
contro i nazionalismi, di piccola come di media
«taglia», che potremmo definire post imperiali.
Colpiscono nel libro gli elogi al ritorno in auge del panslavismo nella
Bielorussia contrapposti alle parallele ricerche in Ucraina ispirate
all’idea della «ukrainità».
Certo quel che si può leggere in alcuni manuali editi a Kiev
nei quali ad esempio guardando alla seconda guerra mondiale si mette
sullo stesso piano il contributo dato dagli ucraini alla sconfitta di
Hitler e, sia pur omettendo di parlare dei collaborazionisti di Vlasov,
le lotte condotte da essi condotte nel dopoguerra, e per lunghi anni,
contro i sovietici, per «recuperare l’indipendenza
statale», possono apparire aberranti. Ma non si
può negare che qui si è di fronte ad una tragedia
vera alla cui base c’è anche, anzi soprattutto,
un’altra tragedia, quella nata nel momento in cui
nell’Unione sovietica la linea di Lenin della
«ukrainizzazione dell’Ukraina»
è stata fatta saltare imponendo il potere di Mosca. E quel
che si è detto per l’Ucraina vale per le
repubbliche baltiche, che per quelle caucasiche e per quelle
dell’Asia centrale. Ma dando addosso al nazionalismo e al
patriottismo sciovinista non si può dimenticare che oltre a
quello nato per la conquista dell’indipendenza
c’era, e in parte c’è ancora –
si pensi alla guerra coloniale in corso nella Cecenia – il
nazionalismo e il patriottismo di chi nega ad altri il diritto
all’indipendenza. Non si può insomma mettere sullo
stesso piano il nazionalismo di Milosevic e quello degli sloveni, dei
croati, dei bosniaci e degli albanesi del Kossovo. Piuttosto
è giusto dire – e qui Procacci ha certamente
ragione – che l’odierno fiorire di «stati
nazione» e di spinte nazionalistiche su base etnica e
fondamentalistico-religiosa nasce in contrasto da una parte con le
parallele spinte all’aggregazione che nascono su basi nuove,
perché senza «paese guida» o obiettivi
imperialistici, come è il caso del processo di unificazione
europea, dall’altra con le politiche dirette a costruire
nuove identità nazionali non più
sull’omogeneità etnica o religiosa ma
sull’esigenza di tener conto nelle nostre società
sempre più multietniche, senza estremismi e visioni
razzistiche, dei diritti di tutti i cittadini, basando nel contempo le
ragioni dello «stare insieme» sui nuovi valori di
libertà.
È attorno a queste questioni che, per la presenza di un
agguerrito fronte multuculturalistica si discute soprattutto negli
Stati uniti. E forse le pagine dedicate da Procacci al dibattito
americano sono le più interessanti per capire anche molte
cose di casa nostra, e non solo di casa nostra. In un mondo ove il
sorgere di nuovi Stati e insieme il diffondersi delle popolazioni al di
là dei confini dei vecchi Stati, creano per la
comunità internazionale problemi gravi – si pensi
alle «guerre dimenticate» dell’Africa e
al terrorismo dei fondamentalisti islamici – che non possono
certo essere risolti con le armi o con gli abbordaggi.

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Repubblica
11 dicembre 2003
Rubrica: Cultura
Un convegno sui libri di testo. Intervista a
Giuliano Procacci
LE MANI SULLA STORIA
I GOVERNI DI TUTTO IL MONDO CERCANO DI INFLUENZARE I MANUALI
IN MODO PIÙ O MENO PESANTE. SI PRIVILEGIA UNA VISIONE
NAZIONALE
PIUTTOSTO CHE GLOBALE E SPESSO SI CENSURA IL PASSATO PROSSIMO
di Simonetta
Fiori
Roma.
«Non c’è governo al mondo che tralasci
di influenzare i manuali scolastici», dice Giuliano Procacci,
figura eminente della storiografia contemporanea che da qualche anno
segue con attenzione “la memoria controversa”
espressa ovunque dai libri di testo, tra revisionismi, nazionalismi e
fondamentalismi. Al tema ha dedicato recentemente una serie di lezioni
all’Università di Cagliari – ora
raccolte nel volumetto dell’Editore sardo AM&D, La
Memoria controversa (pagg. 150, E. 20, e-mail edizioniamed@tuttopmi.it)
– e sempre sull’argomento s’appresta a
inaugurare oggi a Roma il convegno Insegnare la Storia in un mondo
globale, promosso dal Gramsci al Macro, il Museo d’arte
contemporanea (vedi il box qui sotto). «Ovunque si ripropone
lo stesso problema, ossia il rapporto tra identità nazionale
e globalizzazione», spiega lo studioso nella sua bella casa
in un vicolo stretto del centro storico. «I manuali risentono
del modo in cui i diversi governi nazionali interpretano questo
confronto. O si prende atto che il mondo è un vestito
d’Arlecchino in cui c’è tutto, dunque ci
si affaccia sulla diversità con spirito di tolleranza,
oppure di chiude la finestra e ci si concentra sulla propria
identità. Ed è quest’ultimo, con
modalità differenti a seconda del grado di democrazia,
l’atteggiamento prevalente: nell’Europa
dell’Est e in quella Occidentale, nei paesi islamici e negli
Stati Uniti, in Giappone, in India, in Pakistan».
Un argomento, quello dei manuali di storia, soltanto apparentemente
asettico. Perché in realtà, attraverso i libri di
testo, passa il nodo incandescente dei rapporti tra storia e politica,
in Italia quanto mai attuale. Non è un caso che, dopo quasi
mezzo secolo di quiete democristiana – in cui testi di
diversa ispirazione, cattolica, liberale, marxista, pacificamente
convivevano –, sia esploso negli anni Novanta, il fervore
revisionistico della destra. Con nostalgia da Minculpo come quelle
manifestate da Francesco Storace, che qualche anno fa
minacciò l’epurazione dei manuali marxisti.
«Più che il revisionismo sciatto dal Governatore
del Lazio», dice Procacci, «e più delle
sparate folcloristiche di Bossi, ipnotizzato da una Padania inventata,
mi preoccupano certe chiusure espresse da Rocco Buttiglione. Egli ha
criticato nei manuali “l’approccio
mondialista”, mentre a suo giudizio sarebbe necessario che i
giovani studiassero non la storia universale, ma innanzi tutto quella
del loro paese.
Una chiusura che accomuna paesi tra loro molto diversi.
«Si, una tendenza che oggi si mostra prevalente ovunque, e
soprattutto in quegli stati di recente formazione o di recente
conquista democratica, dove più forte è avvertita
la necessità di offrire una propria carta
d’identità. Talvolta si cerca di raggiungere una
mediazione: negli stati dell’ex blocco sovietico, ad esempio,
ad alcuni manuali di “Storia patria” si affiancano
altri di “Storia dei paesi stranieri”, entrambi
discipline di nuovo conio”.
Mentre a Mosca prevale l’interpretazione continuista della
grande Russia.
«Da Ivan il Terribile fino a Putting, passando per Pietro il
Grande, Caterina II e le due grandi guerre patriottiche: contro
Napoleone e contro Hitler».
Talvolta s’assiste all’appropriazione di alberi
genealogici altrui.
«È il caso della Macedonia, uno stato oggi abitato
da popolazioni di lingua slava ed albanese, che rivendica la
discendenza da Alessandro Magno. Ma i greci mugugnano».
A proposito di Grecia, colpisce che ancora oggi esistano i manuali di
Stato, una forma estrema di controllo da parte del potere politico.
«Sì, con i risultati singolari:
s’è dovuto attendere gli anni Ottanta (e un
governo socialista) perché in qualche libro di testo si
facesse menzione della guerra civile che ha lacerato il paese
all’indomani della seconda guerra mondiale. Prima il Black
out era totale».
Questo è un altro problema diffuso: i governi tendono a
cancellare o a edulcorare le pagine più oscure del passato
più recente.
«Al culto del passato remoto spesso s’accompagna il
silenzio sul passato prossimo. Accade così che in un recente
manuale serbo non figuri il nome di Milosevic, e in un manuale
filippino si può leggere una ricostruzione benevola della
dittatura di Marcos».
La questione si complica nei paesi afflitti dal fondamentalismo.
«In India sempre più
l’identità nazionale tende a identificarsi con
quella induista, con conseguenze storiografiche assai rilevanti: viene
fortemente ridimensionato il ruolo di Nehru e in taluni casi perfino la
figura di Gandhi, cui si rimprovera un’eccessiva
condiscendenza nei confronti dei musulmani.
D’altro canto in Pakistan è quasi surreale
l’approdo del revisionismo islamico.
«Nei manuali pakistani l’identità di
quel paese viene fatta coincidere con la sua islamizzazione. Il
risultato è che, prima del VII secolo dopo Cristo, non
c’è storia. Non a caso uno studioso pakistano, K.K
Aziz, ha intitolato una ricerca sui libri di testo
L’assassinio della storia. Lo stesso accade nei manuali
sudanesi, in cui non si fa più cenno alla civiltà
nubiana, o in quelli libanesi in cui si parla sempre meno dei fenici.
Al limite di questa logica perversa c’è la
distruzione dei templi buddhisti da parte dei talebani
afgani».
A questo proposito non si può omettere forse
l’episodio più paradossale.
«Sì, quella dei manuali dei talebani è
una vicenda davvero sconcertante. Solo di recente
s’è scoperto che i loro libri di testo venivano
confezionati, in funzione antisovietica, dagli americani. Un problema
di matematica era così formulato: Se un talebano
è a venti metri da un russo, e con la pistola esplode un
proiettile che corre a una certa velocità, quanto tempo
impiega la pallottola per impallinare il nemico? Questa
l’hanno pensata in un’Università del
Nebraska…».
Paradossale è anche la vague revisionista che ha invaso il
Giappone. Dai nuovi manuali, d’ispirazione governativa, si
ricava che in sostanza furono loro a vincere la II guerra mondiale.
«In un certo senso è l’interpretazione
“orgogliosa” che s’oppone a quella
“masochista” invalsa fino agli anni Novanta. In
sintesi: il conflitto mondiale viene presentato come la guerra per la
grande Asia orientale, una sorta di guerra di liberazione dal dominio
straniero, inglese in India, francese in Indocina, olandese in
Indonesia e americano nelle Filippine. Dal momento che tutti i paesi
asiatici hanno raggiunto l’indipendenza, i manuali giapponesi
ne ricavano che il loro paese è il vero vincitore».
La questione è diventata un caso diplomatico.
«Sostenuta dal primo ministro Koizumi, la rilettura non
è piaciuta a cinesi e coreani del sud, i quali hanno
protestato nelle sedi ufficiali. La manualistica, come vede,
può avere ripercussioni internazionali».
Colpisce, nella sua carrellata, che anche nei paesi di più
robusta tradizione democratica si ponga sui manuali la
necessità d’un controllo statale.
«Sì , in Inghilterra è nato
recentemente un National curriculum, che concilia l’elemento
patriottico, – ossia l’esigenza mossa dalla
Thatcher di valorizzare la storia inglese, dalla Magna charta alla
battaglia di Trafalgar – con l’esigenza pedagogica
e democratica di venire incontro alla mutata composizione etnica degli
studenti. Un compromesso che invece è fallito negli Stati
Uniti, dove l’opinione conservatrice espressa dalla signora
Cheney, consorte dell’attuale vicepresidente, ha combattuto
gli Historical standards, che sollecitavano una revisione della storia
americana nella direzione del multiculturismo».
Ha vinto anche qui la chiusura nazionalistica.
«Sì, anche se in una forma meno aggressiva
rispetto ad altre realtà. Non è diverso da noi:
in Europa si cerca di uscire da una sorta di isolazionismo
storiografico, ma è processo tormentato. A parte il
tentativo di dare vita a un manuale franco-tedesco, un rapporto della
fondazione Agnelli dimostra che – rispetto
all’apertura verso una comune storia europea – le
resistenze sono ancora forti».
Non la preoccupa in Italia l’imposizione rivisionistica sui
manuali minacciata dalla destra?
«Ripeto, più di Storace o di Bossi, che per la sua
polemica contro l’Unità Nazionale ricorre alla
pubblicistica filoborbonica prodotta – ma guarda che
paradosso – dai meridionali mi colpisce la posizione di
Buttiglione, che critica nei nostri manuali di storia un
“astratto cosmopolitismo”. Può far
sorridere che in anni passati quella contro il cosmopolitismo sia stata
una battaglia mossa da un personaggio non proprio esemplare come
Zdanov, ma l’accostamento è davvero
improponibile».

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Recensione al volume:
Alessandra Cioppi, Battaglie
e protagonisti della Sardegna medioevale
Notiziario del
CNR/ISEM n. 31
aprile 2009
SENZA TITOLO
di Giuseppe Bellini
Con piacere
segnalo questo ricco volume di Alessandra Cioppi, valente ricercatrice
dell’ISEM di Cagliari, dedicato alle vicende e ai personaggi
rilevanti della Sardegna. Devo confessare che, dopo aver letto questo
libro, la storia dell’isola nel tempo mi si presenta sotto un
aspetto ben diverso dalle poche conoscenze che inevitabilmente, in
quanto iberista, possedevo. Di catalani e aragonesi sempre abbiamo
sentito parlare, delle contese tra pisani e genovesi pure, di Eleonora
D’Arborea ugualmente, e il compianto Alberto Boscolo ne
parlava spesso, ma un’indagine sistematica come questa della
Cioppi apre prospettive nuove e interessanti, permette di precisare
vicende storiche, dominazioni e movimenti d’indipendenza,
personaggi che hanno fatto la storia della Sardegna. Una storia
tormentata fino all’avvento dei Savoia e anche dopo di essi.
Un libro documentato, ma non solo di argomento storico; infatti, anche
per chi tratta di letteratura vi sono capitoli di molto interesse, come
quelli dedicati alle relazioni di Dante con personaggi
dell’epoca, alla loro presenza nella Divina
Commedia, ad esempio quel conte Ugolino del quale qui si
ripercorre la vicenda e si chiarisce come essa ebbe conclusione. Un
libro, quindi, questo della Cioppi, che non interessa solo lo storico
ma il letterato e che in ogni modo si legge con piacere e profitto.

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